«Ma quello è un koala?» Qualche anno fa, perdendo tempo su internet, sono incappata in una frase anonima che mi ha stregato e che porto con me come una sorta di talismano: «Il te stesso bambino sarebbe orgoglioso del te stesso adulto?» Nell’istante in cui, in attesa di farmi scattare una foto, mi sono ritrovata stretta tra le braccia di un inaspettatamente alto Carlos Ruiz Zafón – autore di una delle tetralogie più vendute al mondo – e mi sono sentita chiedere da lui se sulla cover del mio smartphone ci fosse davvero un koala… Ecco, mi sono detta in quel momento: la ragazzina adolescente che in un pomeriggio di dicembre aveva letto L’ombra del vento, sarebbe stata fiera e orgogliosa di quello che avevo combinato.
Prima però riavvolgiamo il nastro. La saga del «Cimitero dei libri dimenticati» ha tenuto compagnia a me e a milioni di lettori sparsi in numerosi Paesi, per un arco di tempo lunghissimo. Avevo 14 anni ed era Natale quando ho conosciuto la famiglia Sempere e mi sono innamorata di Barcellona leggendo L’ombra del vento. Sono diventata maggiorenne l’anno in cui ho divorato le pagine di Il gioco dell’angelo di nascosto sotto il banco di scuola. Tre anni dopo, quando ho deciso di studiare spagnolo all’università, ho assaporato per la prima volta in lingua originale Il prigioniero del cielo, imparandone a memoria l’incipit (Siempre he sabido que algún día volvería a estas calles…) A ventisei anni, quando ormai era chiaro che la mia vita privata e professionale sarebbe stata nei libri, non solo mi sono bevuta in un sorso Il labirinto degli spiriti – l’ultimo tassello della saga – ma ho anche incontrato, con alcuni blogger e giornalisti, Carlos Ruiz Zafón in persona. Avendo quindi la possibilità di chiacchierare con lo scrittore che rimarrà per sempre il simbolo di tutto ciò che amo di più delle storie.
L’ombra del vento inizia dalla scoperta del cimitero dei libri dimenticati. Partiamo anche noi da qui, da quello che è il cuore dell’universo narrativo che ha creato in questi anni.
La maggior parte delle storie nasce da un’immagine. Per me si è trattato di una biblioteca misteriosa. È stata una visione su cui ho riflettuto molto e che spesso mi ritornava alla mente. Ho provato a capire di che luogo si trattasse e, soprattutto, del perché mi tormentasse così tanto. Cosa significava per me? La risposta era una metafora: non si trattava solo di libri dimenticati, ma anche di idee dimenticate, di persone di cui si è persa la memoria. Si trattava di una riflessione più ampia su cosa ci renda davvero noi stessi e ciò che siamo. Siamo ciò che ricordiamo: meno ricordiamo, meno siamo. È nato tutto da qui.
Il primo volume della tetralogia è uscito in Spagna nel 2002, l’ultimo nel 2016. Parliamo di un’opera che si è sviluppata nel corso di moltissimi anni e che, alla fine, ha riannodato tutti i fili narrativi e i destini dei numerosi personaggi. Quanto si è discostato – se è accaduto – dall’idea originale?
A dirti la verità l’idea originale non è cambiata granché. Sapevo però fin dall’inizio che sì, potevo pianificare il più possibile, ma avrei anche dovuto essere elastico e accettare il fatto che nel corso degli anni io stesso sarei cambiato, e così i miei pensieri e, di conseguenza, la mia scrittura. Sapevo che, ad esempio, un personaggio avrebbe potuto rivelarsi più importante di un altro, o una scena avrebbe potuto essere migliore se scritta in modo diverso. Ma l’importante, affrontando un lavoro così complesso e ampio, resta il fatto di avere chiarissima una struttura di partenza, in modo da essere poi in grado di risultare creativo e flessibile là dove serve.
A proposito di personaggi che si rivelano importanti: il più amato di tutti è Fermín, il compagno di avventure di Daniel. Ironico, buffo, divertente, leale, eccentrico, un po’ strambo. Un piccolo grillo parlante a cui è impossibile non affezionarsi.
Fermín è una parte di me. È nei miei pensieri da quando ero ragazzino e, a un certo punto, ho voluto farne un personaggio vero e proprio, un omaggio alla tradizione picaresca presente nella letteratura spagnola. Una figura che avevo nella mente e nel cuore, ma che non sempre è stata semplice da far rivivere sulla pagina. C’è una parte di lui che è difficile da scrivere: quella divertente. Fermín deve sempre essere buffo, ed è complicato esserlo e, spessissimo, i risultati possono essere disastrosi. Esattamente come nella vita. Fermín è anche quel personaggio che, quando tutti attorno a lui sembrano smarrirsi, rimette ordine e ricorda a ciascuno dove andare e perché: non perde mai l’orientamento o la motivazione, anzi. È una sorta di bussola morale del racconto. Il suo ruolo è anche quello tradizionale del «folle», l’unico a cui è concesso di dire la verità proprio perché pazzo – e quindi non considerato attendibile.
Le sue pagine sono affollate di scrittori mai esistiti e pseudobiblia: da Julián Carax a David Martín passando per Víctor Mataix. Tra i tanti nomi fittizi spunta anche quello di un’autrice realmente vissuta, poco conosciuta dal pubblico italiano, ma di importanza capitale per la Spagna: Carmen Laforet. Mi chiedevo quindi quanta letteratura spagnola scorra – in modo più o meno sotterraneo – nella tetralogia.
Nessuno scrittore opera nel vuoto cosmico: nel mio lavoro ci sono certamente influenze di autori e di libri delle quali sono consapevole, e altre delle quali probabilmente non lo sono. Nada di Carmen Laforet è forse il romanzo che mi ha cambiato di più, e credo che se dovessi consigliare un libro a qualcuno per cercare di capire davvero Barcellona sarebbe sicuramente questo. Perché compie un piccolo miracolo: permette al lettore di tuffarsi completamente nella città durante gli anni Quaranta, nel centro esatto della Guerra Civile. Ma parlando di autori che hanno influenzato e che scorrono nell’universo del «Cimitero dei libri dimenticati» non posso non citare Eduardo Mendoza.
La Guerra Civile rimane una ferita aperta nella storia della Spagna ed è visibile anche nei suoi libri.
Io sono nato nel 1964. Questo vuol dire che durante gli ultimi anni della dittatura franchista ero un bambino. Ai tempi il regime era già indebolito. Ciò che però mi colpiva era il silenzio su tutto ciò avvenuto prima: nel corso degli anni, provavo a chiedere informazioni, ma non ottenevo nulla. Nessuno voleva parlarne: dovevo arrangiarmi raccogliendo allusioni fatte sovrappensiero dai miei nonni o da mio padre, quando credevano non fossi nei paraggi. L’unica cosa certa era che qualcosa di brutto doveva essere accaduto se nessuno voleva parlarne. Credo che ancora oggi, camminando per Barcellona, sia possibile percepire di trovarsi in una città in cui, da qualche parte nel tempo, è successo qualcosa di terribile.
Uno degli effetti collaterali di leggere le sue opere è quello di innamorarsi perdutamente proprio di Barcellona. Che rapporto ha con la sua città?
Barcellona è mia madre. È da dove vengo, sono il prodotto di quella città, di quelle strade. Ciò che provo a fare nei miei romanzi è ciò che prima o poi devono fare tutti gli scrittori: tornare a casa, cercando di definire il rapporto che si ha con le proprie radici. Era ciò che desideravo fare, provando a descrivere la città in modo efficace: come tutte le altre città del mondo, ha infatti molteplici identità. Sono quindi partito dalla creazione di un personaggio che mi avrebbe permesso di esplorarla – e conseguentemente raccontarla – attraverso i suoi occhi per arrivare a quella che credo sia l’essenza della città. La Barcellona dei miei romanzi è una città misteriosa, torbida, nebulosa. Descriverla in questo modo, oltre a creare un tono che avrebbe giovato alla narrazione, è stata una scelta di intenti ben precisa. Il mio obiettivo infatti era sollevare il velo di allegria e l’atmosfera da vacanza che associamo alla città: la visiti, spesso d’estate, frequenti i caffè e locali, ti diverti e poi torni a casa. Questa non è lo spirito della mia città. Ho provato quindi a farla risplendere nei miei romanzi e rivelare la sua natura più intima al lettore.
Negli anni ha incontrato tantissime persone: c’è un aneddoto buffo che vuole condividere con il pubblico italiano?
Ho molti ricordi e aneddoti legati alle esperienze fatte nel corso degli anni. Tanti anni fa, per esempio, numerosi lettori si innamorarono del cimitero dei libri dimenticati, e in molti mi chiedevano con insistenza dove si trovasse, come se fosse un luogo reale. Alcuni si presentavano persino con delle mappe, chiedendomi di indicarne la posizione precisa. Il sindaco di Barcellona propose addirittura di costruirlo sul serio, ma ho sempre detto di no. Il cimitero dei libri dimenticati è e deve restare un luogo dell’immaginazione, deve esistere solo nella mente dei lettori. Altra cosa divertente: molti librai spagnoli hanno raccontato di clienti che domandavano loro in quale scaffale potessero trovare i romanzi di Julian Caràx. Si può chiedere qualcosa di più alle storie?