«Forse dovrei vederle le gambe, e poi potrei darle una risposta».
Ha una risata contagiosa Pierre Lemaitre, Premio Goncourt nel 2013 con Ci rivediamo lassù, il primo tassello dell’imponente trilogia che prosegue con I colori dell’incendio. È proprio per questo secondo romanzo che è qui, a Milano, a guardare compiaciuto l’edizione italiana uscita per Mondadori. E a chiedersi quanto quella donna dai tratti eleganti abbia a che fare con la sua Madeleine, la protagonista indiscussa di questo romanzo che si apre a Parigi, negli anni Trenta.
Magrolino, capelli brizzolati e camicia azzurra, Lemaitre entra nella saletta dell’Hotel Manin riservata all’incontro e, facendo il giro del tavolo, stringe la mano a tutti i giornalisti e i blogger presenti.
Partiamo da Madeleine. Se la immaginava diversa dalla donna ritratta in copertina, quindi?
È perfetta per vendere, avrei scelto la stessa immagine. Però gliel’ho detto, dovrei guardarle le gambe per dirle se è proprio lei o no. Cosa aggiungere su Madeleine? Be’, è una donna comune. E questo per uno scrittore è una benedizione. È più facile creare un personaggio straordinario partendo da una donna comune che viceversa. Madeleine appartiene al suo tempo: si muove in un’epoca grigia in cui, paradossalmente, i sentimenti venivano vissuti a pieno. L’amore, l’odio. I colori dell’incendio. È anche un periodo fortemente dominato dall’incertezza: cosa diventerà l’Europa? E la Francia?
Colpisce il fatto che, alla fine del primo conflitto mondiale, a tutti fosse molto chiara la direzione in cui andare, che la volontà comune fosse: «mai più una guerra come questa». Ed è stata proprio quella stessa volontà a determinare il nuovo conflitto.
Possiamo dirlo? È cattivo nei confronti di Madeleine. Anzi, è cattivo nei confronti della maggior parte dei suoi personaggi.
Ho la reputazione di essere molto cattivo nei confronti dei miei personaggi. Sì, è una reputazione che merito. Del resto, se non facessi accadere loro nulla di troppo doloroso o troppo difficile da superare, come farebbero i lettori a identificarsi o a provare empatia? I colori dell’incendio è stato concepito come una variazione sul tema della resilienza: molti dei miei personaggi riusciranno ad avere successo nonostante le mille avversità.
I colori dell’incendio è il secondo volume di una trilogia, iniziata con Ci rivediamo lassù. Cos’è cambiato – se è cambiato qualcosa – dell’idea che aveva in testa prima di iniziare questo progetto, che già adesso consta di quasi mille pagine?
L’idea di una trilogia è nata quando ho iniziato a riflettere sulla possibilità concreta di dare un seguito a Ci rivediamo lassù. Solo chiedendomi se e che tipo di seguito volessi dargli, ho capito che una trilogia mi avrebbe permesso di realizzare una sorta di fotografia del periodo tra le due guerre. Sono consapevole di essere quel tipo di scrittore che s’imbarca in storie complicate. Io stesso, lo ammetto, a volte sono preso dal panico e dallo sconforto di fronte alle sottotrame, ai personaggi da gestire, alla mole di informazioni da ricordare per non incappare in errori o forzature. Da storie complicate nascono romanzi complicati, ma il mio lavoro sta proprio in questo: renderle facili per il lettore. Certo, la strada più immediata sarebbe scegliere vicende semplici, ma non ne sono capace. E nella realizzazione di tutto questo processo, il personaggio non mi parla, anzi. Il capo sono io, e sono io a decidere cosa debba fare. Il personaggio è lo strumento di una trama: io so dove va la mia storia, e il mio lavoro è fare in modo che le azioni dei personaggi raccontino quella precisa storia. Ho due massime: diffida della scrittura, abbi fede nella scrittura.
Insomma, non iniziare a scrivere un libro se non ne conosci bene la trama – diffida della scrittura. Altrimenti non sai che cosa scriverai, e non padroneggerai l’argomento. Non bisogna credere che la scrittura faccia il lavoro al posto dell’autore. Abbi fede nella scrittura: non puoi prevedere tutto quello che accadrà. A volte è necessario farsi sorprendere.
Farsi sorprendere, ma senza perdere di vista la tradizione. La voce del narratore è molto presente. A tratti sembra strizzare l’occhio al lettore, meccanismo che troviamo spesso nella letteratura francese dell’Ottocento.
Adoravo il momento in cui, nei grandi romanzi francesi dell’Ottocento, l’autore coinvolgeva i lettori. Prendiamo Alexandre Dumas che costellava le pagine di frasi come: «il lettore ricorderà senz’altro che…»
I colori dell’incendio vuole anche essere un omaggio alla letteratura francese del XIX secolo, ed è per questo che ho utilizzato un espediente simile. Bertolt Brecht sosteneva: «Io metto in scena il teatro, ma voglio che il pubblico si ricordi sempre di essere a teatro. Non voglio che se ne dimentichi, perché è nel momento in cui ci si dimentica della propria condizione quello in cui ci si fa imbrogliare dal sistema». Posso facilmente definirmi un autore brechtiano. Infatti voglio che i miei lettori siano consapevoli che quella che stanno leggendo è solo una storia, e che non devono credere che sia reale.
In un’intervista ha dichiarato che, in Francia, solo tre cose cambiano radicalmente la vita di uno scrittore: il colpo di fulmine, l’infarto e il premio Goncourt. Potrei chiederle com’è cambiata la sua vita, ma preferisco chiederle della scrittura.
Colpo di fulmine fatto, il premio Goncourt vinto, ora tocca all’infarto! La ringrazio per avermelo ricordato. (ride) Sì, dopo il successo di Ci rivediamo lassù non è stato facile rimettermi a scrivere.
Credo che tutti gli autori di successo vivano questa condizione di confusione, in cui ci si chiede se si ha ancora qualcosa da dire, se si perderanno lettori, se si riusciranno a pagare le tasse.
Mi sono preso del tempo, ho raccolto il coraggio e ho continuato la storia che avevo in mente. E ora eccomi qui. A continuare ancora.