«Cosa ci fai ancora qui?» Ha lo sguardo fisso su di me, mentre rolla una sigaretta con fare sicuro, eseguendo un rituale preciso. È primavera, ma l’aria è già calda a Genova. Siamo in uno squallido bar non troppo distante da casa mia, seduti uno davanti all’altra. A separarmi da Michele Vaccari due caffè, un’olandesina e un vago senso di malinconia che solo chi è nato da queste parti può capire.
«Franci, non mi stai rispondendo. Perché sei tornata? Vuoi lavorare nell’editoria? Bene, vai. Milano, Torino, Roma… Ma non qui».
«E tu, allora? – sbuffo io. – Perché sei rimasto?» Mi risponde d’impulso, come sempre, lo sguardo altrove: «È diverso. La mia è una questione di resistenza».
Dovevo partire da qui. Perché è in quella volontà di resistenza, di eterna lotta con la nostra città di mare, che è compressa tutta la scrittura di Michele Vaccari. Un marito – il suo nuovo struggente romanzo, uscito per Rizzoli – attinge dalla realtà che mi ha circondato per anni, a pochi passi da dove sono cresciuta, e me la restituisce con la forza di una detonazione inaspettata. Siamo a Marassi, «forse l’unico quartiere del pianeta in cui, per toglierti ogni illusione, lo stadio e il carcere si trovano sulla stessa via, uno di fronte all’altro». Il mare e i caruggi sono un vago ricordo. Al loro posto, il cemento.
Sposati da più di vent’anni, Patrizia e Ferdinando gestiscono una piccola rosticceria. La vita della coppia è scandita da una serie di gesti sempre uguali: lui si occupa dei clienti, lei fa la spola tra cucina e cassa. Un movimento che potrebbe ripetersi all’infinito, così come infinito è il loro amore. E invece no. Decidono di fare una pazzia per festeggiare i cinquant’anni di Ferdinando: andare a Milano, una meta a portata di mano eppure per loro lontanissima. Ed è lì, tra le guglie bianche e i gargoyle minacciosi del Duomo, che la vita della coppia verrà sconvolta per sempre.
Qualche anno dopo quel nostro incontro – alle spalle molti festival fatti insieme –, io me ne sono andata davvero da Genova. Lui invece come aveva predetto è rimasto, eppure oggi grazie a questa storia d’amore ostinato sta girando la penisola incontrando lettori e lettrici.
«A Marassi molte cose sono invisibili». È la prima volta che trasformi il tuo quartiere in un luogo letterario. Perché solo adesso, mi verrebbe da chiederti, dopo molti romanzi dati alle stampe. Ma soprattutto: cos’hai voluto rendere visibile tra le cose invisibili del luogo in cui sei cresciuto?
Marassi è una stratificazione di processi umani, sociali, economici, soprattutto antropologici e politici. Marassi è la superficie della nostra identità come italiani, il risultato di un classismo perbene. Sotto il quartiere, corrono i torrenti invisibili, sopra gli umani. Ma ciò che vediamo è il contrario. Quando esonda il Bisagno, ci accorgiamo delle persone. Volevo mettere in luce un luogo che sembra un inno alla bulimia edilizia e in realtà nasconde un’identità precisa, disegnata da mani esperte che hanno sfruttato il risultato di un’evoluzione demografica incontrollabile per creare un modello di periferia ideale, senza problemi di degrado, con tutti i servizi, i negozi, un luogo perfetto in cui tutti si potessero sentire uguali, quindi indistinguibili. Un luogo dove riuscire a vivere senza desiderare altro, senza voglia di sentirsi unici e irripetibili, e quindi propensi a quell’affermazione personale che può sfociare in pretese di ricambio sociale che i dominanti per istinto di specie avversano. Questa felicità qualunque, questo spettro di realizzazione che rimane fermo al quotidiano, di cui la paura del giorno dopo è la cartina tornasole, era il racconto che avevo sempre temuto, essendo nato in un quartiere in cui raccontarsi significava vantarsi e non era una cosa vista bene. Meglio fare come tutti, meglio stare in disparte, attenersi al protocollo dell’invisibile. Per questo, ho sempre evitato di rendere letterario, quindi epico, qualcosa che voleva rimanere ipogeo, sotto la superficie del mondo narrabile. Marassi è come per la definizione di Giappone che dà Furio Colombo, ciò che non vedi è il suo spirito. La stessa cosa dei romanzi come si deve, il sottotesto dice tutto. E quello che il testo dice rischia di squalificare il lavoro delle retrovie. Quando ho capito che raccontare Marassi mi avrebbe permesso di raccontare cos’è per me scrivere e perché, finora, la rivalsa era la mia unica musa ispiratrice, ho capito che questa era la provocazione che avrei dovuto accettare stavolta. Niente è mai stato così liberatorio per me.
Patrizia e Ferdinando. Mi sembra di averli incrociati mille volte, per strada, quando ancora abitavo a Genova. Come sono arrivati a te?
Sono i miei Olindo e Rosa senza la strage di Erba. Sono i rosticcieri della mia infanzia che mi hanno fatto innamorare della cucina, dei segreti delle cucine che non vedevo ma di cui sentivo gli odori e guardavo i risultati. Patrizia e Ferdinando, più di qualsiasi dio, mi hanno riportato al valore della creazione, al senso stesso del credo, l’abnegazione non come eventualità ma come unica e possibile via al religioso. Patrizia e Ferdinando sono arrivati dalle stragi, sono gli innocenti occidentali per antonomasia, due italiani che sono il target politico perfetto, per età, professione, potenzialità conservatrice. Difendono l’Italia e sembra una cosa splendida, sana, anche quando usa grassi terribili e non ha nulla di raccomandabile per la salute. Per quello che dici tu: li incrociamo mille volte, sogniamo siano i nostri genitori, e in realtà il loro amore ossessivo per se stessi, se contrastato, potrebbe innescare un terrorismo senza precedenti. Odiare il prossimo è molto spesso una forma estrema di amare se stessi.
Un marito si apre con due epigrafi che si specchiano l’una nell’altra: La cucina di strettissimo magro di Delle Piane e La violenza illustrata di Nanni Balestrini, proseguendo poi nelle sezioni successive con Rumore bianco di DeLillo e finendo con Dialoghi con Leucò di Pavese. Mi sembra che queste scelte sintetizzino perfettamente le due anime del romanzo. Come hai capito che per narrare la storia di Patrizia e Ferdinando sarebbe stato necessario partire da Genova – dalle tue radici – e poi andare altrove? E per «altrove» intendo sia geograficamente, Milano, che letterariamente, la distopia. E aggiungo: quanto dista Genova da Milano? E la distopia dalla letteratura?
Parto dal fondo. Milano dista da Genova poco più di 130 chilometri, ma il parametro non può essere così fisico. Ci sono differenze epocali, una narrazione conflittuale che è stata schierata in campo da decenni. Genova è stata all’avanguardia nel mostrarci l’immobilismo che ormai affligge il nostro Paese, quel conservare e mantenere che sono diventati i verbi della nostra nazione, i baluardi da cui ergerci a giudici dell’altro. Ho sempre usato la distorsione della realtà come modo di raccontare il contemporaneo, ma in questo caso non ho voluto raccontare un futuro solo terribile ma anche un futuro in cui le persone si ribellano allo schema e i Ferdinando che ci sembrano i migliori, i più buoni, diventano i nemici di questo mondo possibile libero da deleghe e democrazie ipocrite. Le mie radici sono una continua contraddizione e mi auguro di riuscire a scrivere anche in maniera più autobiografica di questa ambivalenza che è la natura stessa della nostra città. Era inevitabile andare altrove perché il racconto del mio mondo, del luogo e della famiglia in cui sono cresciuto non può essere manicheo. Sfugge alla irreggimentazione della retorica, e solo lavorando sulla fantasia, sul possibile che non esiste, si poteva, a mio parere, inventare un territorio narrabile credibile.
È una costellazione di sapori e di luoghi, questo romanzo. Ci sono i piatti della tradizione, ma non solo. Ci sono le vie, le piazze. Tutto ha un nome preciso, nulla è nostalgico ed è terribilmente vero. Mi commuove, ti farà sorridere, ma ormai non posso pensarti altrimenti: come il cantore di Genova.
Ti ringrazio, perché per me il suono viene sempre prima del significato. Volevo che le parole, le ricette, i modi di dire Genova si mischiassero a formare una melodia inedita eppure familiare, restituendo quello che per me è il vulnus lirico della nostra lingua popolare, da sempre raccontata con un senso di poesia degli ultimi che ha finito per trasformarla in un contenitore stantio, una cartolina bidimensionale che non ci restituisce più la sua verità di vocaboli e dogmi ossessivi che solo a pronunciarli dicono del luogo in cui sono stati generati.
«Io e te siamo sempre stati lo stesso personaggio, – dice Patrizia. – Le coppie indipendenti sono una menzogna in cui non voglio trasformarmi». Un marito si apre e si chiude con capitoli che s’intitolano Una moglie: potrebbe sembrare un controsenso, ma non lo è.
Patrizia è la voglia di cambiare che non ascoltiamo. Più che amare, è dipendente dall’amore che Ferdinando prova per lei. La fragilità maschile mi interessava come lato oscuro in cui spesso le donne coltivano involontariamente un annichilimento culturale da cui è spesso drammatico emanciparsi. In quei due capitoli, non a caso, la moglie si risveglia da uno stato di incoscienza automatico e la sua felicità è sapere di esserci ancora, di non essersi mai arresa, di poter considerarsi una persona al di là di suo marito che non è nient’altro che un uomo innamorato, forse l’essere più pericoloso che si possa immaginare.