Sono precipitata nelle pagine de La città dei vivi – il nuovo libro di Nicola Lagioia – nei giorni più cupi della mia vita. Dopo la morte di Oscar, mentre insonne fissavo il soffitto (in una delle tanti notti intervallate da una serie di risvegli, scandite da incubi, convinta di aver sentito il suo respiro nella stanza accanto), mi sono decisa a iniziare a leggere. Di colpo i contorni di quello che mi stava capitando erano sfocatissimi. Ero lì, catapultata al centro esatto dell’omicidio Varani, ascoltando come ipnotizzata la storia degli assassini: Marco Prato e Manuel Foffo. A Roma, nel cuore pulsante e vero della città dei vivi.
Come fa il male a insinuarsi nelle nostre vite? Perché è sempre – scrive Lagioia: Ti prego, fa’ che non succeda a me. E mai: Ti prego, fa’ che non sia io a farlo? Non c’è nulla – in queste pagine – che non risponda al vero: un atto giudiziario, un’intervista, una mail, uno scambio su WhatsApp.
Eppure, proseguendo nel solco tracciato da Truman Capote e Meyer Levin, Lagioia riesce nell’impresa di plasmare un’opera letteraria nel senso più puro del termine. Evocando l’insondabile. Mai, mai, mai giudicando. Portandoci – senza voyeurismo alcuno – in quell’appartamento maledetto di via Igino Giordani. Senza fornire risposte, ma ponendo continui e implacabili interrogativi al lettore.
Ogni volta che provavo (o dovevo) allontanarmi dal romanzo, quando la vita nonostante tutto bussava alla porta, il magnetismo della scrittura di Lagioia mi riacchiappava. Improvvisamente quel “ho divorato questo libro” si è trasformato in un “questo libro mi ha divorato”. Il mio consiglio: sospendete tutto quello che state facendo e affidatevi a questa storia. Dirà di voi, ne sono sicura.
E lo ribadisco qui pubblicamente: grazie, Nicola Lagioia, per avermi ricordato quanto, anche e soprattutto di fronte all’ineluttabilità della morte, la letteratura appartenga ai vivi.