È un libro piccolo, di appena novantacinque pagine. Per questo, potrebbe esservi sfuggito nella miriade di nuove proposte che escono, ogni giorno, in libreria. Rimediate subito. Recuperatelo, leggetelo. Perché L’appartamento (Tunué, pp. 95, 9,90 euro), quinto romanzo della collana di narrativa Tunué, diretta dall’eclettico Vanni Santoni, è un concentrato di pura bellezza.
Con una prosa asciutta, tersa ed elegante, l’autore, Mario Capello, racconta la storia di Angelo, un uomo qualunque che, messo da parte il sogno di lavorare nel mondo dei libri, ritorna nella provincia da cui, anni prima, era partito. Ritorna per stare vicino all’ex moglie e al figlio, per diventare – finalmente – adulto. Si reinventerà, Angelo, scegliendo un lavoro “vero”: vendere appartamenti. La nuova quotidianità prenderà forma in uno scorrere lento e ripetitivo di piccoli gesti, riti laici fino all’incontro con il signor Ferrero. Una figura enigmatica che costringerà il protagonista a fare i conti con i propri ideali, aspettative e con il passato del nostro Paese. Nei giorni successivi al Salone del Libro, ho avuto il piacere di incontrare l’autore che, proprio come il suo personaggio, non è estraneo al mondo editoriale.
Lavorando sempre a contatto con le storie degli altri, è stato difficile trovare una propria voce?
Ad un certo punto provi una sorta di saturazione nei confronti delle storie e cominci a chiederti se quella che hai scritto – o che hai intenzione di raccontare – meriti davvero di venire al mondo. Devo aggiungere qualcosa di mio a questa massa ormai informe e fagocitante? Vale la pena che lo faccia? L’unica maniera possibile – dato che non puoi farne a meno – per riuscire nell’impresa senza apparire, ai tuoi stessi occhi, presuntuoso, velleitario o inutile, è farlo bene. La cura a questa superfetazione di storie che ci sta soffocando è l’attenzione minuziosa per i dettagli. Se dovesse nascere anche una storia veramente necessaria, meglio. Ma la priorità rimane il modo in cui racconti la storia, la lingua e la tecnica utilizzata, perché – altrimenti – se non ci metti l’artigianato non vale la pena neanche provarci. Trovare la propria voce non è facile. Io l’ho cercata per sottrazione.
Ad un certo punto provi una sorta di saturazione nei confronti delle storie e cominci a chiederti se quella che hai scritto – o che hai intenzione di raccontare – meriti davvero di venire al mondo. Devo aggiungere qualcosa di mio a questa massa ormai informe e fagocitante? Vale la pena che lo faccia? L’unica maniera possibile – dato che non puoi farne a meno – per riuscire nell’impresa senza apparire, ai tuoi stessi occhi, presuntuoso, velleitario o inutile, è farlo bene.
È stato anche paragonato, in uno splendido articolo di Vincenzo Latronico a Calvino.
Sì, sono stato paragonato al Calvino de “La speculazione edilizia”, quello più realistico, che aveva una scrittura densa e non cristallina come quella utilizzata in alcune delle sue operazioni più intellettuali. È un paragone da far tremare i polsi però l’accetto nella misura in cui ricerco la semplicità e l’atmosfera a scapito degli effetti speciali e della muscolarità della scrittura. Cerco invece di tenere un tono abbastanza basso e di provare a trasmettere un mood, un sentimento; che è il mio metodo per avere una voce. I miei narratori – nelle cose che ho scritto fin qui – sono tutti malinconici, disincantati, scorati, ma non tristi (come invece direbbe il mio editor, Vanni Santoni). “L’appartamento” è un libro malinconico e nostalgico: io lo sono sempre. La mia voce è tendenzialmente quella. Il giorno in cui riuscirò a scrivere un romanzo comico, brillante…
Non sarà più lei?
Non necessariamente. Anzi, potrebbe succedere come a Philip Roth. Aveva cominciato a muovere i primi passi nel solco della tradizione del realismo americano, in particolare quello ebraico alla Malamud. Aveva scritto diversi testi con quella voce e lui, per primo, non si ritrovava. Quando poi ha scritto “Lamento di Portnoy” – una festa della lingua, della provocazione – è riuscito davvero nell’intento di raccontare l’ebreo americano. Tradire quella che ti sembra la tua voce può essere, a volte, produttivo.
L’appartamento insieme ai primi due romanzi – I fuochi dell’86 e Tutto quel vuoto – costituisce una sorta di riflessione, in tre atti, su una generazione quasi cristallizzata in uno stato post- adolescenziale, che fa della non scelta la propria scelta.
Sì, una riflessione in tre atti perché tutti i miei romanzi parlano del grande – e abusatissimo, ma sempre interessante – tema del confronto, della frizione fra la storia minima, personale e i grandi eventi della storia collettiva che, in particolare, segnano le tappe della formazione delle diverse generazioni. Ogni generazione ha il suo momento topico. Per la mia, probabilmente, sarà l’undici settembre, per quella precedente l’omicidio Moro, e così via andando a ritroso. Uno degli eventi chiave per la mia generazione è stato anche il disastro di Cernobyl. L’occidente, in quel momento, si riscopre, ancora una volta, estremamente vulnerabile. In quello che sembrava essere, ormai, un momento idilliaco, di pace diffusa è arrivato, dall’esterno, un grande presagio di morte. Il mio primo romanzo, “I fuochi dell’86”, racconta di questo: di un ragazzo, della sua formazione, del diventare adulto in questo scenario. Il secondo, “Tutto quel vuoto”, parla di un gruppo di ex terroristi che prova a rifondare delle velleitarie Brigate rosse. Nel frattempo, il protagonista vive una crisi personale ed esistenziale.
Spesso, usiamo la parola “generazione” come sinonimo del termine sociologico di “coorte” riferendoci alle persone nate nello stesso anno. Invece, a volte, lo usiamo come termine molto più ampio che racchiude tutte le persone che condividono un determinato immaginario. Un immaginario che si trasmetteva quasi per osmosi. Abbiamo letto tutti i fumetti di Zerocalcare. Pur essendo molto più giovane di me, per una semplice questione di palinsesti tv, condividiamo perfettamente lo stesso immaginario. E – sebbene possa sembrare paradossale – apparteniamo, in qualche modo, alla stessa generazione.
Nelle generazioni precedenti erano altre le cose che influenzavano questa partecipazione o esclusione: erano le scelte di vita. Tendenzialmente noi le abbiamo fatte molto più tardi, ritrovandoci bloccati in una tarda adolescenza dove la tv – quello che trasmetteva MTV – era più importante dell’avere un figlio o un lavoro. Non credo sia successo mai prima nella storia umana. Di questo, in un modo o nell’altro, bisogna parlare. Ognuno ha il suo metodo: Zerocalcare lo affronta da un lato, con una grandissima ironia velata di nostalgia per ciò che è andato perduto e, dall’altro, con un grande affetto e stima per certi prodotti culturali. Io l’affronto in maniera diversa, molto più laterale: cerco di evitare il discorso più sociologico/generazionale . Spero, ad ogni modo, di mettere in scena delle storie rappresentative ed esemplari di quelli che sono i problemi dei nostri anni.
La storia personale di Angelo s’intreccia con la Storia con la “s” maiuscola, incarnata nell’ambigua figura di Ferrero. È presente, nel testo, un tentativo di riavvicinamento nei confronti della Storia del nostro Paese? Non è da considerarsi, forse, come un tentativo fallito?
Questa è una bellissima e difficile domanda. Non so se ci sia, da parte di Angelo, un vero tentativo di riavvicinamento. Rinchiuso dentro un guscio protettivo di indifferenza nei confronti della realtà, era andato costruendosi piccoli riti laici – andare a spiare le finestre del figlio e della moglie separata la notte, quando tutta la cittadina già dorme; portare il figlio a messa per sentire il calore tipico di una piccola comunità; la giornata di pesca con il figlio e, successivamente, con lo stesso Ferrero. Purtroppo Angelo, nella sua vita precedente, lavorava nell’editoria, a contatto con le storie. Queste ultime tornano a cercarlo, lo perseguitano come fantasmi non placati. In un giorno della sua nuova vita – ormai solo dedita alla vendita degli appartamenti – una storia viene a bussare alla sua porta: è la storia personale di Ferrero che, al tempo stesso, incarna la storia collettiva del nostro Paese. Non facciamo mai i conti con il nostro passato. Soprattutto per ciò che riguarda gli avvenimenti più negativi. Abbiamo una rara capacità di rimuovere le cose negative. Il problema – come ci insegna la psicoanalisi – è che il rimosso non scompare, finisce nell’inconscio e lì vi rimane. Pulsa esattamente come tutto ciò che riguarda il nostro privato. Tutto questo rimosso della storia del nostro Paese rimane nel nostro inconscio collettivo e, prima o poi, si materializza sotto forma di incubi.
E poi c’è questa cosa curiosa: quando la storia viene dimenticata si ripete. E si ripete – come sosteneva Marx ne “Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte” – sempre due volte: la prima in tragedia, la seconda in farsa. Il problema della storia italiana è che, molto spesso, parte già come farsa e, di conseguenza, o diventa una doppia farsa o, più probabilmente, si ripete in tragedia. Inoltre, c’è una lunghissima parte della nostra storia con cui non abbiamo fatto i conti, fatta di manipolazione, di democrazie controllate, di violenza, di omicidi, di attentati. Non possiamo semplicemente far finta che non siano avvenuti. Sono avvenuti l’altro ieri. Questo rimosso di cui parlavamo, prima o poi, deve riemergere e – probabilmente – riaffiora nei punti in cui meno ce lo aspettiamo.
Purtroppo Angelo, nella sua vita precedente, lavorava nell’editoria, a contatto con le storie. Queste ultime tornano a cercarlo, lo perseguitano come fantasmi non placati. In un giorno della sua nuova vita – ormai solo dedita alla vendita degli appartamenti – una storia viene a bussare alla sua porta.
Angelo fa un lavoro simile al suo, ma lo sguardo che ha nei confronti del mondo dell’editoria è molto disincantato.
Prima dell’inizio del romanzo, Angelo faceva il mio stesso lavoro. “L’appartamento” racconta del suo cambiamento, di quando si mette a fare un così detto lavoro “serio”.
Anche questo è interessante: il fatto che, nel testo, il vendere case – ritenuto un lavoro serio, concreto e vero – sia contrapposto al lavoro editoriale descritto quasi con l’intento di voler restituire la percezione di chi non è parte di questo mondo e pensa che tutto si riduca alla lettura di qualche libro.
Sì, è proprio così. Il personaggio che incarna a pieno questa visione è Mara, la collega di Angelo. Come ho già detto, prima dell’inizio del romanzo, Angelo faceva il lettore editoriale, il correttore di bozze, il ghost writer. Il disincanto nei confronti dell’editoria nello sguardo del protagonista si percepisce pienamente poiché ha preso la decisione di lasciare questo ambiente. Per ovvie esigenze narrative ho dovuto calcare la mano. C’è questo passaggio famigerato in cui si dice che gli scrittori sono sempre una delusione. È molto efficace e c’è, in questa riflessione, una parte di verità.
Io non sono ancora disincantato e, soprattutto, mi trovo nella prima situazione di Angelo: quella in cui si è convinti di non saper fare nient’altro. I libri mi piacciono, mi piacciono le persone che lavorano nell’editoria e che ho ritratto – per ragioni artistiche – in modo infedele. Nonostante tutto quello che si può dire, la gran parte delle persone che ho incontrato e incontro sono appassionate, molto preparate, disposte a sacrificare moltissimo per quella che è una passione – cosa che in questo Paese accade molto raramente – e che fanno la cosa più bella che si possa fare: lavorare con i libri, parlarne, discuterne, innamorarsi, venderli.
Una delle critiche mosse a L’appartamento è stata quella di aver inserito molti temi in un numero esiguo di pagine. Perché questa scelta?
Sono partito con l’idea di farne un romanzo breve perché volevo riuscire a mantenere, in ogni pagina, la tensione che è propria del racconto e che invece in un romanzo – come ho avuto modo di dire – non solo non è possibile per una questione di misura, ma non è neanche auspicabile. Forse “Underworld” di DeLillo riesce a essere intenso, per 700 pagine, come certi racconti. Ma, non a caso, è uno dei grandi romanzi del Novecento. Forse è, addirittura, quello che lo chiude. Nel nostro piccolo, non è neanche auspicabile che un romanzo sia così intenso per un numero di pagine così alto. Questa particolare scelta ha comportato che molti dei tanti temi presenti non potessero che essere solo accennati. Ho pensato, quindi, che fosse meglio alludervi e lasciare che poi fosse il lettore a mettere insieme i punti, a ricostruire, ad andare a cercare qualcosa oppure farsi una propria idea. Sacrificare l’approfondimento in favore della ricchezza. Questa è, senza dubbio, un’altra conseguenza di lavorare nell’editoria. Ho sviluppato una notevole insofferenza per i testi non tanto troppo lunghi, ma troppo espliciti, in cui le cose vengono dette e raccontate in maniera anche didascalica. Può essere un modo per andare incontro al lettore, ma anche, forse, per sminuirlo. Alcuni temi sono nati nel momento in cui l’io narrante ragionava sulla propria esistenza. Non erano quelli centrali del libro. Questi ultimi rimangono il nostro rapporto con il passato e quello che è necessario fare per diventare adulti sia per le persone della generazione precedente alla nostra sia per noi. Tutti gli altri temi, collaterali, sono nati perché Angelo è un personaggio che guarda il mondo e riflette.
Sacrificare l’approfondimento in favore della ricchezza. Questa è, senza dubbio, un’altra conseguenza di lavorare nell’editoria. Ho sviluppato una notevole insofferenza per i testi non tanto troppo lunghi, ma troppo espliciti, in cui le cose vengono dette e raccontate in maniera anche didascalica. Può essere un modo per andare incontro al lettore, ma anche, forse, per sminuirlo.
Come tutti i romanzi che compongono la collana di narrativa Tunué, anche la copertina de “L’appartamento” si compone di un simbolo su uno sfondo monocromatico. Accennava, durante l’incontro al Salone del Libro, al fatto che fosse un simbolo editoriale. Ho pensato potesse essere quello che indica la presenza di uno spazio da togliere e il pensiero è subito andato a un passaggio preciso del romanzo: Del resto, riflettei, se stipi la tua vita del numero sufficiente di cose fatte come si deve, non c’è spazio, per la tragedia. Sì, mi dissi, è quello il segreto. Riempire gli interstizi.
Una bella interpretazione, ma è sbagliata. Potrei vendermela in futuro, ma a te dico la verità. Avevo espresso il desiderio che il simbolo scelto fosse uno di quelli usati dai correttori di bozze. Avevo in testa quello che serve a indicare il punto quando vuoi fare una sostituzione. L’ho detto al grafico che è partito da quello per poi rielaborarlo. Probabilmente aveva anche in testa quello dello spazio e poi è uscito il simbolo che ora potete vedere sulla copertina. Ha una parziale doppia valenza e lettura proiettata da Vanni, ma non lo diciamo perché svelerebbe troppo della trama…
Ha già in mente qualcosa per il prossimo romanzo? Può darci qualche anticipazione?
Posso anticipartela perché non sono scaramantico. Voglio raccontare di un piccolo paese – la provincia ritorna, non c’è niente da fare. È l’immagine di un paese dai contorni fumosi, non ancora definiti. Questa micro comunità si trova a dover fare i conti con la scomparsa di una ragazzina di dodici anni. Non voglio né raccontare il dramma della sua famiglia né lo sviluppo delle indagini. Vorrei concentrarmi su quello che accade al paese e a tutte le persone che sono implicate, loro malgrado, in questa vicenda.