Mentre varco la soglia dello sfarzoso e scintillante hotel di Milano in cui ho appuntamento con Salman Rushdie – insieme a un gruppo di blogger e giornalisti –, penso che non ci sarebbe stato luogo migliore per parlare di La caduta dei Golden (Mondadori, traduzione di G. Pannofino, pp. 452, 23 euro). Uno dei più grandi romanzieri contemporanei, Rushdie – che insieme al recente Premio Nobel Ishiguro e ad altri autori come Hanif Kureishi ha scelto come lingua di scrittura l’inglese, rinnovandone profondamente la letteratura – ritorna alla potenza narrativa delle opere che l’hanno reso celebre. Consegnandoci, con questo nuovo romanzo, una saga familiare piena di misteri, un’epica americana sullo sfondo della politica di Obama, ma soprattutto di Trump.
Nero Golden, incarnazione stessa del sogno americano, arriva a New York con i suoi tre figli e s’installa in una villa maestosa al centro stesso della città. Da quale Paese proviene? Da chi o da che cosa sta cercando di fuggire? Chi è Mr Golden e chi sono i suoi tre stranissimi figli? Ma soprattutto: è possibile cancellare il passato e costruirsi una nuova identità? Nero Golden ci prova con tutte le forze, iniziando da un cambio drastico dei nomi – il suo e quello della sua discendenza: Petronio, Apuleio, Dioniso. Che, mantenendo intatta tutta la loro altisonanza, nel volgere della narrazione si trasformano in Petija, Apu e D. Sarà un giovane vicino di casa – René –, un ragazzo con la passione del cinema, a tentare di addentrarsi nella fitta rete di misteri che avvolge i Golden rimanendone forse per sempre invischiato. Sono personaggi maledetti, eroici e diabolici quelli di Salman Rushdie, il quale, in un elegante completo nero, si siede al centro della sala e comincia a rispondere con grande disponibilità a tutte le domande.
La caduta dei Golden segna un cambio molto forte nella sua produzione letteraria. Ha abbandonato gli elementi magici – sempre presenti nelle sue pagine – in favore di un realismo quasi feroce. Perché?
Quando ho scritto il libro precedente – Due anni, otto mesi & ventotto notti – la mia scrittura era più improntata a un atteggiamento favolistico, quasi fantastico. Al centro della narrazione c’era la città di New York: l’avevo descritta come se si trattasse di un regno da favola. Poi, a un certo punto, è come se mi fossi detto da solo: «Ora basta. È tempo di abbandonare questo stile. Voglio spingermi verso altri territori». Avevo sfruttato al meglio tutto quello che potevo fare con quel tipo di scrittura, non volevo proseguire su quella strada. Così, con La caduta dei Golden, ho deciso di abbracciare un modo di scrivere assolutamente diverso. Nel frattempo, che cosa è successo? Be’, è stato il mondo stesso che, improvvisamente, è diventato surreale. Tre settimane fa, per farvi un esempio, ero a cena con Ian McEwan e ce lo siamo proprio detto, ridendoci anche un po’ su: se anni fa avessimo scritto una storia ambientata a New York – raccontando quello che sta succedendo ora – le nostre case editrici ci avrebbero mandato a casa. Ci avrebbero detto: «Guardate, scrivete qualcosa di più realistico: a queste cose non crede nessuno».
Il problema è che poi, nella realtà, è accaduto l’incredibile. Ovviamente adesso ci ritroviamo tutti a pensare a che cosa fare di fronte alle fake news, come poter risolvere la difficile situazione in cui ci troviamo. Le fake news non sono un problema da sottovalutare, anzi: sono importanti perché riguardano tutta la società. Quando si inizia a confondere il vero con il falso, ci si deve rendere conto che la situazione è sempre più pericolosa. Ed è esattamente quello che si sta verificando sotto i nostri occhi. Che cosa avrei dovuto fare, allora? Inventare storie non-vere per cercare di parlare della verità? Adesso stranamente la fiction sembra essere deputata a descrivere la realtà che ci circonda, a riportare tra i lettori un senso di verità. È uno dei motivi per cui mi sento di spingere la gente a leggere i romanzi in questo preciso momento storico. Perché nei romanzi, forse, si può trovare la verità.
Quindi lo scrittore deve provare a descrivere al meglio la società in cui vive.
Il compito dello scrittore è quello di cercare di ottimizzare il materiale che ha tra le mani. Molti degli scrittori che ho ammirato nel corso della vita – e che considero miei maestri – hanno la capacità di descrivere ciò che succede nella loro società. Nella più ampia delle accezioni. Charles Dickens, ad esempio, da questo punto di vista è un maestro: racconta la società partendo da un esponente che è all’apice, arrivando fino agli strati più bassi. Nessun personaggio escluso, dall’arcivescovo all’assassino. E la sua prosa include tutto. Essere scrittore significa anche comportarsi da giornalista. Realizzare un buon reportage delle cose così come sono. Per me in quanto autore è fondamentale uscire dal mio piccolo mondo e capire cosa sta succedendo in questo momento nella società in cui sono immerso. Devo aggiungere che, ne La caduta dei Golden, ho esplorato due mondi che sono estremamente distanti dal mio. Due dei figli di Nero Golden, il personaggio principale, hanno caratteristiche ben precise: Petija è autistico mentre D. ha dei problemi di transizione di genere sessuale. È ovvio che io non mi trovi né nella prima né nella seconda condizione, però ho voluto includere questo tipo di problematiche perché sono situazioni molto presenti nella realtà attuale. Ho iniziato il lavoro di documentazione parlando con dei conoscenti: ho un paio di amici che soffrono di autismo e conosco almeno due persone che hanno cercato, in un modo o nell’altro, di cambiare sesso. Sono quindi partito da queste due situazioni per andare ben oltre una semplice descrizione superficiale. Da lettore ammiro tutti quegli scrittori in cui percepisco che hanno fatto una certa fatica loro stessi per primi, uno sforzo per imparare ciò di cui stanno parlando.
L’identità è il nucleo di questo suo nuovo romanzo. È possibile quindi fuggire dal proprio passato?
Per la famiglia Golden alterare, nascondere la propria identità, è il problema principale. Passare da un Paese all’altro, ripartire da capo, cercare di occultare ciò che è stato. La domanda che innerva le quasi cinquecento pagine del romanzo è: tutto questo è possibile?
Buttarsi alle spalle il passato? Dimenticarselo? Nella vita come la intendiamo oggi, secondo me, è abbastanza possibile. New York ne è la prova lampante. Le sue strade sono piene di ex migranti, di gente che si è rifatta un’esistenza, che a volte ha cambiato o semplificato il proprio nome, che l’ha anglicizzato o occidentalizzato. La capacità di reinventarsi a New York è all’ordine del giorno. Invece nei romanzi non è un grande espediente. Ne La caduta dei Golden ho cercato di far capire immediatamente al lettore che questa famiglia aveva cambiato Paese, addirittura continente, non certo per problemi economici e neppure perché fossero migranti, ma perché stavano tutti fuggendo da un mistero. La cosa brutta dei romanzi è che a un certo punto devi dire la verità, perché non puoi andare avanti all’infinito senza svelare nulla. Il passato lo devi rendere in qualche modo presente. La differenza che c’è tra fiction e vita è che nella vita ti puoi reinventare, nella fiction no.
Allora mi sono immaginato un museo fittizio, il Museo dell’Identità. Molti giornalisti, anche di New York, mi hanno chiesto se esistesse veramente. Alcuni l’avevano addirittura googlato. In ogni caso questa invenzione mi ha permesso di esplorare il problema dell’identità, una questione sentita da tutti nel mondo, ma in modi diversi nei vari Paesi. In India quando si parla di identità si intende l’identità religiosa. Nel Regno Unito – nel bel mezzo di questa Brexit – si ragiona intorno all’identità nazionale, su che cosa significhi al giorno d’oggi essere inglesi e che differenza ci sia tra l’essere inglesi o essere europei: una diatriba che è diventata una storia senza fine. Negli Stati Uniti c’è un discorso sull’identità di genere, oltre che sull’identità vista dal punto di vista razziale e storico; infine – immediatamente dopo queste ultime elezioni – gli americani si guardano allo specchio chiedendosi chi siano, che cosa significhi essere americani oggi in una situazione che ha completamente diviso il Paese.
E l’identità linguistica? Nero Golden e i suoi figli si nascondono dietro le cosiddette lingue morte.
I Golden non sono una famiglia modesta. Un uomo che si sceglie come nome Nerone è uno che non pensa di essere l’ultimo arrivato. C’è anche molta vitalità in personaggi che si scelgono dei nomi le cui radici risalgono alla tradizione antica, che si rifugiano sotto il velo delle lingue morte. Ho cercato di immaginare uno sfondo più preciso, accurato e realistico possibile. E su questo sfondo ho posizionato dei personaggi le cui dimensioni fossero esagerate. Che poi è un espediente che usa spesso Dickens, si torna di nuovo a lui… Ed è anche lo stesso meccanismo che viene attuato in ambito operistico: i personaggi vengono ingranditi per dare loro quella statura che noi spettatori riusciamo così bene a percepire e riconoscere. Ho concepito La caduta dei Golden come se si trattasse di un’opera lirica.
L’opera lirica, ma anche il cinema. Parliamo di René – testimone dell’ascesa e della caduta dei Golden – e della passione che ha per il cinema. Immagino sia anche una sua passione…
Sono nato con l’ossessione per il cinema. Anche il mio protagonista ne è ossessionato, in particolare per quel tipo di cinema che amo anch’io – la Nouvelle Vague francese, il Neorealismo italiano, Truffaut, Godard, Fellini… Quando scrissi I figli della mezzanotte mi ispirai proprio a Fellini. Perché solo lui è riuscito a mitizzare l’infanzia in quel modo. Il cinema ha profondamente influenzato la mia scrittura. Godard, ad esempio: i miei dialoghi cercano di replicare quel pastiche di voci, di gente che si parla sopra e attraverso. Infine c’è il maestro assoluto: Alfred Hitchcock. Non avevo mai scritto un libro che affrontasse una scrittura imperniata sul mistero. Mi sono posto una domanda importante: quanto (e quando) intendevo svelare dei miei personaggi? La regola che mi sono dato è: comportarsi come un contagocce. Ancor più che in altre opere, ne La caduta dei Golden la lezione di Hitchcock è stata assoluta. Poi ecco, c’è l’altro lato della medaglia. Il rapportarsi con il mondo del cinema, con i produttori… Io sono stato molto fortunato: ho partecipato alla realizzazione della versione cinematografica de I figli della mezzanotte. Ma ho dovuto rinunciare a tanti altri progetti che sembravano avviati.
Un sacco di volte negli incontri pubblici è capitato che venissero da me delle persone presentandosi come responsabili del tale o del tal altro fondo di investimento. Mi dicevano che avevano amato il libro, l’idea, che avrebbero messo a disposizione tutto quello che avevano pur di poter finanziare il film. Ecco, mai ricevuto nulla. A quel punto impari che nel mondo del cinema ti dicono un sacco di frottole. Io e René, dopo essere passati attraverso questa esperienza, ci siamo guardati negli occhi ed entrambi (sia io che il mio personaggio) ci siamo detti: ammiriamo chiunque riesca a realizzare il proprio film. Che sia il 23esimo seguito di Justice League o il 14esimo remake di Spiderman – non importa quanto brutto possa essere il tuo film: se riesci a portarlo a termine meriti rispetto.
I personaggi principali del suo nuovo romanzo sono perlopiù uomini: Nero Golden e i suoi tre figli maschi, lo stesso René… Eppure sembrano le donne, seppure sullo sfondo, il motore dell’azione.
Quando il libro ha iniziato a prendere forma mi sono reso conto che quello che stavo creando era un mondo di soli uomini. «Ma dove sono finite le donne?» mi sono chiesto. Stavo mettendo in scena una situazione vicinissima al patriarcato. Mano a mano che procedevo con la scrittura, ho capito che erano proprio le donne a guidare le vicende narrate nel libro. Prendiamo la storia della vita della madre, che è centrale rispetto al romanzo stesso. Oppure l’entrata in scena della donna russa, il motore dell’intera trama: è come se s’impossessasse della narrazione, è lei che agisce da ragno e che intrappola René. Mentre Sachira – la ragazza del nostro giovane cineasta – diventa quasi il giudice morale della storia. Si tratta di perdono? Di redenzione? È tutto in mano sua. Le donne quindi, senza che quasi me ne rendessi conto, sono diventate al tempo stesso motore e giudice del mio romanzo. Colpa di Dostoevskij, comunque! Uno dei libri che fa da antecedente a La caduta dei Golden è proprio I fratelli Karamazov – la storia di un patriarca e dei suoi tre figli disgraziati –, quindi colpa del buon vecchio Fëdor, c’è poco da fare!
Gli Stati Uniti sono la sua nuova casa: New York – con la voglia di rinascita, le strade che accolgono chiunque – è al centro esatto della sua ultima opera. Che cosa rimane, dunque, dell’India e della sua cultura antichissima?
Questo è un libro sulle città. Io mi penso sempre come uno scrittore che vive all’interno di una città. Sono state tre le città importanti della mia vita: Mumbai, Londra e New York. Molto prima di trasferirmi definitivamente negli Stati Uniti, sono andato a New York per la prima volta quand’ero molto giovane, nell’anno ormai impossibile del 1972 d.C. – parliamo dell’epoca in cui c’erano ancora i dinosauri. Avevo venticinque anni e la città era totalmente diversa da come è adesso. Era sporca, povera, pericolosa. La vita costava poco. E quindi calamitava una grande quantità di giovani creativi che venivano da tutto il mondo. Incontrando tutti questi scrittori, cineasti e attori, mi è venuta voglia di diventare parte integrante della città e dunque di andarci a vivere. Ma come molto spesso accade quando ti trasferisci in un posto, dopo un certo numero di anni quel posto cambia: non c’era più nulla della New York che avevo conosciuto in quel periodo. La caduta del Golden non è il primo libro in cui parlo di New York, è però il primo in cui la descrivo con un senso di intimità molto profondo. Mi sono sempre interessato alla collisione tra l’idea della vetustà e l’idea della novità. La cultura vecchia e la cultura nuova. Un edificio che ha duecento anni per gli americani è molto vecchio, mentre in Europa tutte le case hanno duecento anni. In India invece tutto è talmente antico che è come se si fosse perso il senso del tempo. Se tu chiedi a un indiano quanto tempo fa è stato costruito un palazzo, lui ti risponde: «Molto tempo fa». E se tu lo incalzi e gli chiedi «Sì, ma quando esattamente?» lui ti risponde nuovamente: «Tanto tempo fa». È abbastanza strano che quelle che sono le culture più antiche sembrino totalmente disinteressate alla capacità di definire il tempo, mentre le culture più giovani sono portate a considerare ciò che è successo ieri come fosse accaduto cento anni prima.
Faccio un esempio: negli Stati Uniti d’America la memoria è qualcosa che ha abbandonato tutti. Non c’è più segno di alcuna memoria storica. E questo dimenticare dà la possibilità, alle persone con pochi scrupoli, non solo di raggiungere il potere, ma anche di rimanerci. È un momento buio per l’America, ma io sono ottimista per natura. Ho grande fiducia nelle nuove generazioni, se quelle generazioni sono interessate alla rinascita. Se noi saremo in grado di non distruggere il pianeta, allora loro saranno i nuovi progressisti sociali. Trump non è e non sarà mai il futuro dell’America. E nemmeno «la nuova normalità», come è stato definito. C’è bisogno di un cambio generazionale. Trump ha 72 anni, Hillary Clinton 70 – io stesso ne ho 72 (ammette sorridendo ndr) – ecco, se queste persone riuscissero a farsi da parte e uscire di scena… Sarebbe la cosa più giusta.