Ciò che mi è successo in questo 2020, durante un periodo durato nove mesi – da quando cioè hanno diagnosticato un mesotelioma pleurico a Oscar, mio suocero, fino al giorno della sua morte –, potrebbe essere sintetizzato in un semplice «la mia vita è cambiata». Ma sarebbe inesatto. Più corretto sarebbe ammettere che l’amianto ha riscritto la mia vita. All’improvviso è comparso un alfabeto nuovo, che volevo imparare al meglio. Innanzitutto il crisotilo. L’amianto estratto presso la cava di Balangero, per decenni definito non tossico, ha persino portato alla formulazione di una falsa tesi scientifica, conosciuta come difesa dell’ABC – anything but crysotile, ovvero tutto ma non il crisolito (come a dire: di cancro morirai per aver respirato qualsiasi tipo di amianto, ma non il crisotilo. Ripetiamolo: falso).
Poi lui, il mesotelioma pleurico, con tutte le sue sottodefinizioni. «Speriamo non sia un sarcomatoide»: me lo sono ripetuta fino allo sfinimento, prima dell’istologico. Una volta risposto alle infinite mail di lavoro, passavo le notti a compulsare le linee guida dell’AIOM (Associazione italiana di oncologia medica) cercando notizie sul mesotelioma pleurico. Le statistiche erano contro: la sopravvivenza media era fissata intorno ai 14 mesi. Quello che non sapevo, che non potevo sapere nelle notti insonni trascorse nel tentativo di decifrare – quasi fossero promesse di infelicità – sigle come T4N1M1, era che di mesi noi ne avremmo avuti nove. Come una gravidanza. Ma al contrario.
Cosa accade in una famiglia che si è appena formata, quando sai che non avrai tempo per immagazzinare nuovi ricordi? Quando davanti a te speravi di poter avere a disposizione decenni e invece ora sei certa che il prossimo Natale ci sarà una sedia vuota? Cosa accade quando ti accorgi di poter contare sulle sole parole, e ti ritrovi già a pensare – pur avendolo ancora davanti ai tuoi occhi vivo – a come racconterai ai tuoi figli (se ne avrai) di quell’uomo buono, testardo, che custodiva a memoria i nomi di tutte le piante, sapeva cucinare in modo egualmente straordinario la bagna càuda e la paella, e ti chiamava Bellissima del mondo?
«Ma non è tuo padre».
«Ora hai un problema in meno».
Me lo sono sentita ripetere in più occasioni. E ogni volta la voce mi si spegneva in gola. Incredula, sgranavo gli occhi. Non riuscivo ad accettare di aver udito bestialità simili. Allora mi chiedevo: l’ho sentito davvero? O forse non dormo da troppe notti?
Se c’è qualcosa che mi ha insegnato questo anno disgraziato è: non permettere mai che siano gli altri a etichettare il tuo dolore. Perché se davvero l’amianto ha riscritto la mia vita, allora rivendico una nuova geografia del cuore. Dove i confini non sono solo quelli di sangue, ma soprattutto quelli del bene. E allora lo posso dire: sì, era anche mio padre.
Grazie alla dottoressa Federica Grosso, responsabile della SSD mesotelioma (e tumori rari) dell’Azienda Ospedaliera di Alessandria – e al suo incredibile team – per non averci mai lasciati soli, anche quando di mezzo c’erano chilometri di distanza. Alle dottoresse Manuela Inguì, Federica Colombi e a Paola Rossatto dell’Associazione F.A.R.O. per averci fornito gli strumenti necessari affinché potessimo assistere Oscar fino alla fine. A mia mamma Anna e a mio papà Mario, per avermi insegnato a rimanere – senza smettere di amare. A Marco, per tutto l’amore che c’è stato, che c’è e che verrà.