E tuttavia, in un mattino di primavera come questo, l’odore di terra gli ricordava gli afrori delle bestie, l’umidità delle loro frogie, il tepore delle loro pance, e in generale le sue stalle – due, ne aveva avute – e allora lasciò vagare il pensiero su brandelli di immagini che gli tornavano in mente. Forse perché aveva appena superato la casa dei Barton, ripensò a Ken Barton, il padre di quei bambini miserabili, che ogni tanto aveva lavorato per lui, e subito dopo – come gli succedeva più spesso – ripensò a Lucy che se n’era andata al college ed era poi finita a New York. Era diventata scrittrice.
È possibile scrivere un romanzo più bello di Olive Kitteridge avendo scritto Olive Kitteridge? La risposta credo proprio che sia sì. Ed è racchiusa in Tutto è possibile (Einaudi, traduzione di Susanna Basso, pp. 216, 19 euro) l’ultimo romanzo della scrittrice americana Elizabeth Strout. Ma attenzione: non cadete nell’errore di considerarlo il seguito di Mi chiamo Lucy Barton. I due libri sono fratelli, compagni di viaggio. E l’universo in cui si muove la Strout – ampliando la costellazione di personaggi già presentati nel precedente volume – è lo stesso: l’immaginaria cittadina di Amgash, nel profondo Midwest.
Tommy scosse un poco la testa, guidando. Sapeva un mucchio di cose, essendo stato bidello nella stessa scuola per più di trent’anni; sapeva delle ragazze rimaste incinte, delle madri che bevevano e dei coniugi infedeli, perché sentiva i discorsi degli studenti radunati in gruppetti nei bagni, o dalle parti della mensa; per tanti versi lui era invisibile, e lo capiva. Ma Lucy Barton era quella che l’aveva turbato di più. Lei, come sua sorella Vicky e suo fratello Pete, erano crudelmente respinti dagli altri bambini e anche da qualche insegnante. Ma poiché Lucy si fermava dopo le lezioni tanto spesso e per così tanti anni, Tommy aveva la sensazione – benché lei parlasse pochissimo – di conoscerla meglio di tutti gli altri.
Sono gli altri, le vite delle persone più ordinarie quelle che più affascinano la Strout, come ha ricordato nell’intensa conservazione con Elena Varvello al Circolo dei lettori, durante il quarto appuntamento di Giorni Selvaggi.* «I’m interested in people. It is always people» continua a ripetere la vincitrice del Premio Pulitzer.
Al momento si era fermato a uno stop, e recitò a bassa voce le parole: «Lucy, Lucy Barton, Lucy mia. Chissà dove sei, perché sei andata via?» In realtà lo sapeva. Nella primavera dell’ultimo anno di liceo, l’aveva incontrata nell’atrio dopo scuola, e lei gli aveva detto, d’un tratto guardandolo in faccia, a occhi spalancati: – Mr Guptill, io vado al college –. E lui: – Oh Lucy. Che bella cosa –. Lei gli aveva buttato le braccia al collo; non lo lasciava più, così alla fine l’aveva abbracciata anche lui. Non l’aveva mai più scordato, quell’abbraccio.
*Giorni selvaggi è un progetto di Salone Internazionale del Libro e Circolo dei lettori.
Partner: Scuola Holden Storytelling & Performing Arts, COLTI – Consorzio Librerie Indipendenti di Torino, Biblioteche Civiche Torinesi, Torino Rete Libri, Babel Libreria Internazionale.
Illustrazione di Giordano Poloni