Se dovessi descrivere con un solo vocabolo Alessio Arena, il più adatto sarebbe artista. Un artista poliedrico, a tutto tondo, un creativo della parola, sia essa scritta o cantata, detta nelle sue lingue di origine – napoletano e italiano – o in quelle di adozione, catalano e spagnolo. L’occasione giusta per incontrarlo è data da Writers, circolo letterario e narrativo svoltosi a Milano, il 7 e 8 febbraio 2015, all’interno degli edifici dei Frigoriferi Milanesi, in cui è stato presentato il suo ultimo romanzo, La letteratura tamil a Napoli (Neri Pozza, pagg. 240, 17 euro).
Come una crepa che si arrampica nella parete di un giardino, pieno di erbacce e frequentato dalle peggiori bestie notturne, i tamil di Napoli, negli anni, hanno creato un mondo parallelo, fatto di cunicoli e gallerie nel sottosuolo della città partenopea. Sono pronti a tutto, anche a farsi saltare in aria per far conoscere al mondo la tragica causa di Tamil Eelam, la loro patria perduta. Hanno anche fondato una società segreta, l’Accademia dei sotterranei, che produce opere letterarie napo-tamil. In dieci capitoli, in una mescolanza di tradizioni, mitologie e usanze, si snoda la storia di questa guerra raccontata da altrettanti dieci dei loro scrittori.
Se dovessi descrivere con un solo vocabolo Alessio Arena, il più adatto sarebbe artista. Un artista poliedrico, a tutto tondo, un creativo della parola, sia essa scritta o cantata, detta nelle sue lingue di origine – napoletano e italiano – o in quelle di adozione, catalano e spagnolo.
La letteratura tamil a Napoli è un testo che sfugge alle classificazioni. È complesso, visionario e a tratti ironico. Com’è nato il romanzo?
Il romanzo è nato dall’idea di fare una cover di un libro che mi era piaciuto molto, La letteratura nazista in America di Roberto Bolaño. Fortunatamente poi l’idea ha preso un’altra strada, non potevo scrivere un romanzo identico, con la stessa struttura -brevi biografie di scrittori inventati costruite e assemblate in modo tale da far scorrere la lettura come se fosse quella di un libro normale. È rimasto il titolo come omaggio abbastanza spudorato al testo di Bolaño. È nato anche dall’intenzione di voler raccontare una città vista da una prospettiva assolutamente inedita, da sotto, raccontata, detta in un’altra lingua, una lingua nuova, che si mischia con degli elementi culturali che vengono da molto lontano, quelli della cultura tamil.
Tutti i personaggi nel libro hanno un nome in lingua tamil e in napoletano. Un espediente per sottolinearne la doppia identità?
Il doppio nome è molto diffuso nel Sud Italia, soprattutto a Napoli. Il nomignolo sopravvive molto spesso al nome principale di una persona e ne indica un difetto. È un qualcosa di abbastanza violento, bastardo però poi succede un po’ come con le persone di origine africana in America: gli afroamericani che chiamano se stessi niggers. Il termine è usato in senso dispregiativo, ma loro l’hanno fatto proprio e, per questo, se ne sentono orgogliosi. I personaggi del romanzo hanno un doppio nome perché è tipico, perché succede a Napoli, o forse anche perché, molto spesso, i loro nomi sono impronunciabili.
Il testo, permeato da un forte sincretismo, è pregno di richiami alla cultura tamil, singalese e a quella napoletana. Come si è documentato?
Ho cercato di leggere quanto più potessi e mi sono messo in contatto con il maggior indologo italiano che ho scoperto poi essere una signora di Pisa, Emanuela Panattoni, direttrice del polo di letterature dravidiche dell’Università di Pisa. Le ho scritto come se fossi un alunno del primo anno del suo corso e mi ha dato delle indicazioni di libri ai quali non sarei mai arrivato se non me ne avesse parlato lei. È stata davvero di grande aiuto e, per questo, è citata nel libro. Anche se, nel romanzo, il maggior indologo d’Italia è un signore, un personaggio di finzione. Mi sono documentato molto di più di quanto non l’abbia fatto per gli altri romanzi perché, in questo caso, toccavo una materia molto lontana da me. Molto lontana, però, paradossalmente, anche vicina perché racconto la cultura tamil sporcata di quella napoletana, come dicevi tu. Racconto i tamil a Napoli. C’è un piccolo viaggio, ma, come ti ho detto, racconto una città vista da altri occhi.
Napoli ha un ruolo fondamentale. Si erge quasi a protagonista. Che rapporto ha con questa città, la sua città di origine? Ambivalente?
Polivalente. Molto complicato. Cerco di spiegarlo, di dare una risposta a quello che tu mi hai chiesto attraverso canzoni che fino ad ora sono state riassunte in due dischi e da tre romanzi che, più o meno, ritornano a Napoli. È difficile darti questa risposta… è come se non riuscissi a capirla, a capire quello spazio se non me ne andassi. È per questo che da otto anni non ci vivo più stabilmente.
La sua è una passione per l’arte a 360 gradi. Ha recentemente pubblicato Bestiari(o) familiar(e), un album plurilingue. In che modo l’essere musicista influenza la sua scrittura?
Non so se sia più la musica a influenzare la mia scrittura. Forse più viceversa. Parto sempre dalla parola scritta che, a seconda della urgenze con la quale viene accompagnata, sarà cantata, detta, scritta. Il processo creativo che sta dietro alle canzoni, nel mio caso, è molto schizofrenico. Non so mai se un’idea si plasmerà sotto forma di un romanzo, di un racconto o di una canzone. Certo, molte delle mie canzoni possono essere considerate abbastanza narrative e la musica è molto presente nei tre romanzi che scritto. Moltissimo.
Non so se sia più la musica a influenzare la mia scrittura. Forse più viceversa. Parto sempre dalla parola scritta che, a seconda della urgenze con la quale viene accompagnata, sarà cantata, detta, scritta. Il processo creativo che sta dietro alle canzoni, nel mio caso, è molto schizofrenico
Scrittore, musicista e anche traduttore. Sta lavorando alla traduzione italiana de Una madre di Alejandro Palomas di prossima pubblicazione per Neri Pozza. Può darci qualche anticipazione?
Il romanzo s’intitola “Una madre” anche se non so se sarà il titolo definitivo in Italiano. In fase di editing può succedere di tutto. È un romanzo che considero molto spagnolo. La lingua è uno spagnolo medio, de calle, della strada, non è una lingua molto letteraria. Racconta una cena di Capodanno in una famiglia abbastanza particolare, con delle peculiarità che sono molto spagnole. Non saprei come definirle in altro modo.
Come ha fatto nel processo di traduzione a rendere in italiano queste peculiarità senza far perdere nessuna sfumatura?
Non ho cercato di renderle italiane, ma ho cercato sì di renderle comprensibili al pubblico italiano. Ho evitato quanto più possibile le note. Ce ne sono forse due in tutto il romanzo. Poi magari spariranno anche quelle due in fase di editing. È stato un lavoro che mi ha, stavo per dire, provato. È stata una prova importante, difficile. Difficile perché, ad un certo punto dovevo zittire lo scrittore e doveva prevalere in me il traduttore. Dovevo servire la lingua dell’autore che stavo traducendo. Molto spesso mi sono trovato a tradurre delle frasi che non avrei mai scritto in quel modo. In quel momento devi essere traduttore, non traditore. È stata una nuova avventura che spero possa essere letta quanto prima.
Quali sono i suoi progetti per il futuro? Sta già lavorando ad un nuovo romanzo o a un nuovo album?
Il nuovo album è quasi pronto, ma non sarà caratterizzato da un assemblaggio di molte lingue come è accaduto per Bestiari(o) Familiar(e). Vorrei complicarmi meno la vita. L’intento è quello di dividere il disco in due parti. Ci sarà un’edizione spagnola/catalana e un’edizione italiana. Nell’epoca della musica liquida, tu, italiano, potrai andarti a cercare anche le canzoni dell’altro disco. Per una questione di promozione, è più comodo così. Per Bestiari(o) Familiar(e) ho trovato qualche difficoltà. Immaginati una radio italiana che si vede arrivare questo disco e le prime canzoni sono in catalano…
Per quanto riguarda il romanzo invece, ci sono poche pagine scritte, ma ho un’idea abbastanza chiara. Sarà ambientato a New York, negli anni ’20. Racconterà la storia di un lungo viaggio di ritorno a casa, negli anni ’50 – dopo la prima parte negli anni ’20 – su un transatlantico, Homeland, che doveva riportare a casa una cantante che ha reso famosissima la canzone napoletana nel mondo e a New York, in particolare a Little Italy, Gilda Mignonette.
Negli anni ’20 era diventata la regina degli immigrati. Potrebbe quasi essere definita una biografia romanzata, anche se sarà un romanzo a tutti gli effetti. Racconterà però di un personaggio realmente esistito che ebbe già una vita molto molto romanzata: si sposò con un gangster italo-americano e l’FBI le proibì di incidere su qualsiasi supporto per oltre dieci anni. C’è un bel po’ da raccontare…
Napoli però ritorna anche in questo nuovo romanzo.
Napoli ritorna. Ma ritorna sempre da un’alterità. Gilda Mignonette vorrebbe ritornare a Napoli, ma non riesce perché muore sul transatlantico che si chiama Homeland, casa. La sua casa la trova nel cammino.