Il giovane scrittore italiano che (ancora) non conoscete. Intervista a Nicola H. Cosentino

Ho incontrato per la prima volta Nicola H. Cosentino sullo schermo di un pc. Scorrendo la mia timeline di Twitter, casualmente, mi sono imbattuta in un articolo appena pubblicato su minima&moralia. La recensione, di un libro che avevo letto e amato – Candore di Mario Desiati –, mi turbò parecchio. Per diversi motivi. Primo: riusciva a smontare e rimontare il testo con la precisione e la passione di un artigiano della parola. Secondo: l’autore era giovanissimo. Classe 1991. Consapevolezza di scrittura di un quarantenne. Terzo: non avevo idea di chi fosse. Dovevo rimediare.

Decisi di farlo subito. Da allora il nostro rapporto è stato scandito da telefonate di lavoro in cui lui era rigorosamente in macchina – il tic-tac della freccia come piacevole costante – mentre io farneticavo su libri che sapevo che doveva leggere per compiere la sua magia. Ovvero restituirti la storia che pensavi di aver letto in un modo in cui tu non avresti mai saputo farlo. Finché ho scoperto che, oltre che scrivere di critica, Nicola H. Cosentino scrive anche romanzi. E allora non potevamo non vederci, davanti a un caffè a Torino, per parlare finalmente dei personaggi che popolano le sue, di storie. Perché Cosentino è uno di quegli autori giovani da scoprire e leggere. Ma, soprattutto, da tenere d’occhio.

Partiamo dall’età. E ribadiamolo ancora una volta: sei nato nel 1991.

Devo confessarti una cosa: sull’età, da un certo punto in poi della mia vita, ho iniziato a mentire spudoratamente. Mi imbarazzavo dello stupore che si manifestava sui volti di certe persone. Ho iniziato a fingermi più grande. Mi capita spesso che la gente ci creda. Quando ho conosciuto la mia fidanzata, Alessandra, a causa di un aneddoto sulle Olimpiadi raccontato un po’ per gioco sono passato per un trentacinquenne. Alla fine mi ha chiesto la carta d’identità per capire quanti anni avessi e ha scoperto infine che eravamo coetanei.

Quando è arrivata la scrittura nella tua vita?

Da subito. Ero uno di quei classici bambini che tentano sempre di scrivere storie. Spesso con risultati molto buffi. A otto anni, ad esempio, ho cercato di dare vita a un romanzo: L’infinito in venti pagine. Un titolo pretenziosissimo: una strana commistione tra i vari Xena, Hercules e tutto ciò che guardavo da piccolo. Una sorta di Divina commedia con un bambino che finiva nel mondo di Xena. Come ti dicevo, ho sempre scritto, mi è sempre piaciuto raccontare agli altri qualcosa. Cosa che stride con il mio carattere perché in realtà sono timidissimo. Ho scritto abbastanza disperatamente durante tutti gli anni del liceo: avevo sempre qualche idea per la testa, influenzata da cose a volte bellissime, a volte tremende.

Cosa leggevi all’epoca?

Ho letto di tutto, davvero. Ho letto Tre metri sopra il cielo con grande voracità. Sono convinto che a 11 anni qualunque modo per arrivare alle emozioni della lettura sia lecito. In realtà non solo a quell’età. Sempre. Non bisogna mai avere razzismo culturale perché la crescita cognitiva è una cosa, le emozioni sono un’altra.

La preparazione alla vita non passa dai libri, le emozioni possono essere più o meno adulte. Come ti dicevo, ho avuto esperienze di lettura onnivora: per un periodo sono stato in fissa totale con Pennac, poi ho letto dal nulla Vasco Pratolini. Ho avuto una formazione autonoma e stranissima. Ho sempre scritto e letto senza una vera e propria ideologia culturale, senza mettermi delle barriere, non mi sono mai adeguato – non tanto per scelta quanto per carattere – a nessuna corrente. Ho sempre letto quello che mi andava.

Sono finito infatti a studiare Cultural Studies, che è l’equivalente di giustificare i propri gusti trattandoli come materia di studio sociologico. Con il dottorato di Cultural Studies faccio il lavoro più bello del mondo: mi occupo di leggere romanzi, vedere film e serie tv per capire che impatto hanno sulla nostra società, o come la nostra società stia condizionando l’arte in questo periodo. Un occhio, artistico, costantemente attento sul reale. 

In questa «formazione autonoma e stranissima» quali sono stati gli autori che più hanno lasciato tracce su di te e sulla tua scrittura?

I maestri e modelli sono due cose diverse. I maestri li scegli, ma non è detto che li copi. I modelli li copi, ma non è detto che li scegli. Il mio romanzo preferito di sempre è Cent’anni di solitudine, che è anche uno dei pochi libri che ho letto più di due volte. È un testo che non mi sentirei mai di imitare. La soluzione? Mangiarlo, digerirlo e riproporlo. Quello è il maestro. Poi devo citare Sandro Veronesi. Ma il Sandro Veronesi di XY o di Brucia Troia, quello più allegorico, quello che non mi sentirei mai di replicare. Quando hai a che fare con l’allegoria, la metafora e il realismo magico, ecco… la suggestione la devi trovare da solo, non la puoi prendere in prestito da nessuno. Poi ti ho già accennato al mio amore per Pennac. A un certo punto ho pensato che non avrei potuto più leggere nient’altro che non fosse stato pensato e composto da questo autore francese. Sono andato a recuperarmi anche i testi teatrali, una volta finiti tutti i romanzi. Poi ho capito che era un qualcosa di inimitabile, troppo caotico che, anzi, mi avrebbe solo fatto male.

Invece, per quanto riguarda i modelli, ecco, ci capiti. Nel senso che sono convinto che – forse proprio perché l’ho letto quando ho capito che cos’era il romanzo e cosa la letteratura – difficilmente Nicola adulto riuscirà mai a staccarsi da Carlo Cassola. Ed è per questo motivo che ho una fortissima passione verso la narrativa italiana contemporanea classica, poco sperimentale. Perché sono legato a quel baluardo lì, quel baluardo che non sempre ha successo e che spesso non viene capito subito. Anzi. Sono molto attaccato alla storia semplice, individuale, sofferta.

Che cosa ho fatto dunque? Dopo tutta quella matassa brillante costituita dalla prosa di Márquez, Pennac, Borges sono passato a Carver ed Hemingway. Che cercano di smorzare le emozioni, le limano il più possibile. E lì mi sono accorto che sì, era vero che dovevo mangiare, digerire Márquez, arrivando poi a una fase in cui sottrarre tutto quanto. Sono tuttora in questa fase di scrematura anglofona. Una fase in cui non posso non parlare di Ian McEwan – il più cattivo e forse per questo il più grande – che mi ha trasmesso un tale amore verso l’Inghilterra, al punto che il primo romanzo l’ho scritto lì.

Ovvero il tuo esordio, Cristina d’ingiusta bellezza.

Avevo cominciato a scrivere questa storia per un corso di sceneggiatura nel 2009. Ho un passato da sceneggiatore di cortometraggi amatoriali. Amo follemente il cinema. Era una storia che riguardava solo due personaggi in cui mancava, di fatto, quello che poi sarebbe diventato il cuore pulsante del mio primo libro: Cristina. Quando mi sono trasferito a Londra, ho iniziato a scrivere il romanzo. Ed è lì e solo lì che è comparsa Cristina, una donna cinematografica, di un certo cinema. Me la sono immaginata come Jennifer Connelly. L’ho finito in due mesi anche se mai avrei pensato di riuscire a concludere un romanzo. Ho molte, moltissime idee, ma sono abbastanza distruttivo. O meglio, lo ero. Forse non lo sono più. In ogni caso, mi trovavo a Londra per lavorare in una casa editrice londinese, facevo lo stagista. E ho cominciato a scrivere, a fiume. Mandavo ad Alessandra i capitoli, saggiando il suo interesse. Era lontana, eravamo agli inizi, era una lettura disinteressata. Più le mandavo pagine, più lei me ne chiedeva. Mi dava dei consigli: non essendo dell’ambiente non aveva grandi sovrastrutture. Mi ha dato dei veri consigli da lettore. L’ho finito in un pub, aveva un titolo diverso, e nulla: mi sono buttato, non pensando che, di fatto, sarebbe stato il mio esordio. È uscito nel 2016, pubblicato da Rubbettino.

Direi che non hai perso tempo: Vita e morte delle aragoste, il tuo secondo romanzo, è uscito con Voland nell’estate del 2017.

Ho scritto Cristina nel 2015, come ti dicevo, ed è stato pubblicato nel 2016. Nell’attesa ho scritto il secondo. L’ho finito sempre per ragioni analoghe. Alessandra lavorava a Fiumicino, lontana dal centro di Roma. Io avevo iniziato a scrivere dei racconti, mi divertiva l’idea di intrattenerla mentre viaggiava in treno per andare al lavoro. E poi mi ero reso conto che avevo una difficoltà nell’impostare dei racconti autoconclusivi, quindi mi stavo allenando come uno sportivo. Unico sport in cui mi sia mai allenato. Quindi ho continuato questa storia che non pensavo potesse essere pubblicata, perché la trovo stranissima rispetto al tipo di cose che avevo scritto fino a quel momento. Non è nata con la disperazione di essere pubblicata a tutti i costi, ma con una certa passione. Ho proposto alla rivista «Colla» un estratto di quello che sarebbe diventato Vita e morte delle aragoste. Volevo pubblicare dei racconti che avessero come protagonista Vincenzo Teapot. Mi ha risposto subito Francesco Sparacino, che è uno dei fondatori della rivista, dicendo – occhio lungo – che aveva capito che c’erano altri racconti. E forse pure un romanzo. Il libro l’ho stampato in una tipografia di Roma, a via della Polveriera, e l’ho mandato a Francesco. Poi sono entrato in Pastrengo, la sua agenzia. Se non ci fosse stato lui, io probabilmente non l’avrei proposto.

È vero, il romanzo ha una forma strana, ma per questo – aggiungo io – affascinante. Sembra un puzzle. I capitoli come pezzi che vengono dati al lettore in modo non lineare, senza seguire per forza un ordine cronologico.

È nato così, con questa forma. Avevo appena finito Olive Kitteridge di Elizabeth Strout e ne ero rimasto folgorato. Era un anno in cui avevo letto solo racconti. I racconti più secchi. Avevo l’immagine di questo personaggio ricorrente in un romanzo di racconti.

Con lo stesso personaggio, ma con la differenza del sovvertimento temporale. Volevo che fosse un telefilm. Un inanellarsi di aneddoti posti alla rinfusa come in un telefilm. E non utilizzo a caso la parola telefilm al posto di serie tv. Perché nei telefilm di quando io ero bambino gli episodi erano trasmessi in maniera confusa, senza rispetto della continuity. Ma l’emozione a me arrivava lo stesso, era identica. Certo, la formazione non funzionava, mi mancava la suspense della formazione. Ma subentrava un tipo di interrogativo diverso. Non più «che cosa accadrà?», ma «cosa ci sarà nella puntata successiva?» E poi tu stesso eri artefice della memoria di quella storia. Eri allenato ad affezionarti a quella storia.

È un esercizio rischioso perché uno potrebbe notare un’assenza di climax. Me lo sono potuto permettere perché sono un esordiente, ma forse è un rischio che bisognerebbe concedersi in letteratura: quello di non funzionare. E quindi sì, l’emozione di quel disordine ti arriva lo stesso. Perché crea delle piccole emozioni dentro la storia. Se ci pensi è così anche quando noi ci raccontiamo: raccontiamo una nostra vita e non la nostra vita, diamo una serie di aneddoti per come ci vengono in mente. E così ci presentiamo agli altri.

Arriviamo al Grande Gatsby della tua storia: Vincenzo Teapot.

Ho deciso di raccontare la vita di Vincenzo Teapot (che non è nessuno), un personaggio non meritevole di una biografia. Se volessi creare un Grande Gatsby terra terra – mi dicevo – con un amico al suo fianco altrettanto terra terra che lo venera: che nome gli darei? Intanto, prima del nome doveva avere uno pseudonimo. Ero incuriosito dalla figura di Elena Ferrante, e ho pensato che questo mio protagonista non potesse esserne sprovvisto. Mi sembrava una presunzione necessaria. Il primo passo per delineare un personaggio. A quel punto ho pensato a Teapot. Mi piaceva come suonava. Mi sembrava anche assurdo nella vita reale. Vincenzo è un nome sgraziato che io amo molto, anche per ragioni familiari (è il secondo nome di mio nonno). E Teapot è un nome delicatissimo che ti fa pensare all’Inghilterra più snob. O a una teiera.

Delle tante etichette che possono esistere in letteratura, una di quelle che meno sopporto è romanzo generazionale. Però forse Vita e morte delle aragoste un po’ si avvicina. Almeno, io ­ho avuto la sensazione – straniante e struggente – di ritrovare fra le tue pagine la mia generazione (precaria negli affetti, nel lavoro, nel futuro).

Ho deciso di scrivere non vergognandomi della realtà. Altrimenti non si pone un immaginario. Abbiamo difficoltà a immaginare e a raccontare la nostra generazione perché conosciamo meglio quella precedente. Dai racconti dei nostri genitori, dalla televisione, dai libri. E poi, posto che la generazione viene raccontata attraverso il pop, – i libri raccontano anche di meno –, non ci accorgiamo di quello che sta succedendo mentre sta succedendo. Non siamo sempre consci di quello che sta accadendo. C’è stato un momento in cui MSN sembrava il futuro. Prova a leggere un romanzo con dei protagonisti che comunicano attraverso quella chat, e ti sembrerà più antico della locomotiva a vapore. Devi sempre stare attento, ma a un certo punto devi iniziarlo a raccontare, il mondo, e lo devi raccontare per come lo vedi. Altrimenti Hemingway ha parlato inutilmente.

Non era volutamente un romanzo generazionale, volevo però che fosse una storia ambientata nel presente, che parlasse di quelle cose perché hanno formato me, emozionato me. Perché questo mi sembra il modo più sincero e giusto. Che poi abbiano intercettato anche altri mi fa pensare che siamo una generazione e non un’accozzaglia di persone che imitano generazioni differenti. Però sì, impariamo a riconoscerla. Avrà forse qualcosa di importante da dire.

C’è tantissima Spagna.

Sono innamorato della Spagna. C’è stato un periodo in cui volevo sempre andare in vacanza lì. Mi sono innamorato di Siviglia. E non potevo non raccontarla. Ce la riportano poco, ma è folgorante. L’espediente del tempo invertito, poi, viene da Festa mobile. Un libro che per me è stato molto formativo non tanto per immaginare la vita di uno scrittore quanto quella di una persona curiosa nei confronti del mondo. Quindi da lì nasce la mia fascinazione per la Spagna letteraria. I toreri, quel sole che ti viene addosso, quella passione, quel rapporto erotico con la morte che vorresti raccontare però non puoi raccontare perché erano gli anni Venti…

Infine, non potevo non chiederti delle aragoste.

Le aragoste sono arrivate a metà stesura. Aprono e chiudono il romanzo. Il testo ha una struttura ellittica e al centro di questa ellissi c’è un elettrocardiogramma impazzito. L’inizio e la fine però si congiungono. L’immagine delle aragoste è arrivata nella fase in cui i personaggi si rendevano conto del fatto che erano cresciuti. E soffrissero di questa crescita. A me piace dire cose che sono comunemente ritenute profonde attraverso un esempio che può arrivare a chiunque. Questa cosa dell’aragosta è stata folgorante: per tante ragioni si prestava al modo di crescere che mi interessava raccontare. L’aragosta non potrebbe crescere perché ha un carapace che lo costringe, ma cresce proprio perché cerca di liberarsene. E come alle aragoste succede nel corpo, a noi succede nel pensiero, nella crescita cognitiva ed emotiva. Nelle esperienze sentimentali.

 

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