Una decina di chilometri. Forse qualcuno in meno. C’era traffico, quel giorno – per fortuna. E uno di quei tassisti tanto solerti quanto attenti al codice della strada. È stato così, sul sedile posteriore di una macchina che ci accompagnava dalla stazione all’aeroporto di Bologna, che ho potuto incontrare Kerry Hudson.
Reduce da un tour che l’ha vista protagonista in diverse città della penisola, la scrittrice scozzese – capelli biondissimi e sorriso contagioso – mi confessa ridendo: «È la mia prima intervista in taxi». Tra le mani ho Sete (minimum fax, traduzione di Federica Aceto, pp. 323, 13,90 euro), romanzo che è stato finalista allo Strega Europeo: una storia d’amore, di riscatto, di speranza. Di quelle che ridi e piangi insieme, e ti incazzi anche un po’ quando la vita sulla pagina appare così dura e vera; come testimonia la mia copia di Sete, piena di orecchie e parecchio stropicciata.
È la storia di Alena, che dalla Siberia parte alla volta di Londra con un sogno semplice, che è quello di molti: vivere una vita migliore. Inutile dire che non sarà così. E la sua personalissima discesa agli inferi sembra non avere una fine, finché non compare Dave. Ragazzo semplice, cresciuto in un quartiere di case popolari. E allora forse una felicità sarà possibile, o forse no? Certi destini possono davvero cambiare?
Da Sete a Tutti gli uomini di mia madre. Le tue storie sembrano pensate per dare voce a chi non ce l’ha.
È il mio background. Sono nata in una comunità popolata da persone che facevano parte della working class. Crescendo mi sono sempre più appassionata alla lettura, ma non riuscivo a trovare libri che descrivessero il mondo a cui appartenevo. Ho scoperto Roddy Doyle, ma sembravano non esistere libri scritti da donne. E così mi sono detta: perché no?
Reduce da un tour che l’ha vista protagonista in diverse città della penisola, la scrittrice scozzese mi confessa ridendo: «È la mia prima intervista in taxi». Tra le mani ho Sete: una storia d’amore, di riscatto, di speranza. Di quelle che ridi e piangi insieme, e ti incazzi anche un po’ quando la vita sulla pagina appare così dura e vera.
Uno dei personaggi che più si avvicina al tuo modo di vedere la scrittura è Alena. Come sei arrivata a lei e a ciò che racconti in Sete?
Volevo scrivere una storia d’amore. Le storie d’amore non sono mai prese troppo sul serio. E io volevo scriverne una che fosse vera, realistica, a tratti difficile, non certo romantica. A dirti la verità, per primo è arrivato il personaggio di David. Quando vivevo ad Hackney, dall’altra parte della strada c’era un ragazzo enorme che abitava in uno degli appartamenti di fronte al mio. Lo vedevo tutti i giorni: annaffiava le rose, sbriciolava il pane per gli uccellini… Era così dolce! E mi sembrava così solo che mi sono detta che doveva, per forza, incontrare qualcuno. L’istante dopo mi sono chiesta cosa sarebbe accaduto se fosse successo davvero. Ed è spuntata Alena: la somma di tutte le ragazze che ho visto a Londra provenienti da altre città, altri Paesi, capitate lì con la speranza di una vita migliore. Il personaggio però è cresciuto solo dopo, quando sono partita per la Siberia… Ma andiamo con ordine. All’epoca, come ti dicevo, vivevo ad Hackney, nella zona est di Londra. Nell’appartamento che sarebbe poi diventato – nella finzione romanzesca – quello di Dave e Alena. Hai presente Hackney?
Scuoto la testa sorridendo: non ci sono mai stata… Anche se sono andata a Londra due volte, mi affretto ad aggiungere.
Lo so, è un po’ fuori dalle solite mete turistiche, ma è un posto pieno di vita: turchi, curdi, ebrei ortodossi, musulmani, una grande comunità gay. Un’umanità decisamente variegata, insomma. Parte del libro, avevo deciso, sarebbe stata ambientata in questo quartiere. Ma a un certo punto, durante la stesura, mi sono resa conto di non poter finire di raccontare questa storia senza andare in Russia. Forse altri scrittori avrebbero potuto immaginare la Siberia e descriverla in modo realistico ed efficace nelle loro pagine, non io. Io dovevo andarci. Non avevo molti soldi, ma sono riuscita a ottenere una sovvenzione, e ho potuto trascorrere un mese lì. Da Mosca a Ejsk in treno: ho praticamente attraversato tutta la Russia.
Da sola?
Sì, da sola. Mi muovo spesso da sola, ma devo essere sincera: è stato un viaggio difficile. La Russia, be’, onestamente fa abbastanza paura, soprattutto per una donna che viaggia in totale solitudine. Ma ci sono stati dei momenti di dolcezza che sono poi confluiti successivamente nel libro, nelle scene che vedono Dave intraprendere il mio stesso viaggio, affrontare vicissitudini per certi versi simili alle mie, e trovare piccoli momenti di conforto. Sono partita non solo per descrivere al meglio un posto lontanissimo da quella che potevo definire casa, ma anche – e soprattutto – per capire perché le persone scelgono di mettere la propria vita così in pericolo intraprendendo un viaggio per andarsene da un luogo in cui, di fatto, non è in atto una guerra o una carestia. Ed è stato il passo più importante per poter trovare una voce vera ad Alena, riuscire a restituirla e farla vivere sulla pagina attraverso le mie parole.
«There is a crack in everything, that is how the lights gets in» cantava Leonard Cohen. Nonostante le vicissitudini che devono superare i tuoi protagonisti, nei tuoi finali la luce brilla con un’intensità maggiore.
Uno dei miei più grandi obiettivi, scrivendo Sete, era quello di provare a parlare di tutti i modi in cui l’amore può essere complicato. Alena si vende spesso, è come se tutto il suo corpo fosse in vendita. Do ut des: è inevitabile nelle relazioni. Come scrittrice ero interessata a capire fino a che punto gli equilibri cambiano. Alena e Dave si amano, d’accordo, ma hanno anche estremamente bisogno l’uno dell’altra. Quand’è che l’amore si confonde con l’opportunismo e viceversa? I finali sono tremendamente difficili. Ma spero sempre che l’universo che ho creato sopravviva anche una volta che il lettore è arrivato all’ultima pagina e ha chiuso il libro. Mi piace dare a chi legge il potere di scegliere cosa può succedere dopo. E che in questo universo ci sia ancora una luce.
Sono nata in una comunità popolata da persone che facevano parte della working class. Crescendo mi sono sempre più appassionata alla lettura, ma non riuscivo a trovare libri che descrivessero il mondo a cui appartenevo. Sembravano non esistere libri scritti da donne. E così mi sono detta: perché no?
Dalla pagina alla vita. Di fatto non dai voce alle donne in difficoltà solo attraverso i tuoi romanzi, ma anche con un progetto: The WoMentoring Project. In che cosa consiste e come è nato?
Due anni e mezzo fa alcuni studi hanno evidenziato come le autrici donne, in Inghilterra, fossero recensite meno degli uomini. E che vendevano meno rispetto agli uomini. E, ovviamente, venivano pagate di meno. Non so se sia lo stesso in Italia, ma l’editoria nel mio Paese è sostanzialmente governata da donne. Vai a una festa del mondo editoriale e sono tutte donne. Non riuscivo a capire la logica, e finivo per arrabbiarmi moltissimo. Sono una «working class writer». Non è una cosa così inusuale in Inghilterra però ecco, facciamo un esempio: se a una presentazione ci sono quattro scrittrici, quasi sicuramente tre di loro sono andate a Oxford o Cambridge. È ancora prevalentemente un mondo middleclass. Così ho deciso di fondare un progetto in cui le donne che scrivono, provenienti da qualsiasi realtà, fossero seguite gratuitamente da editor, agenti letterari e case editrici. Non deve essere il background, ma il talento a decidere se puoi avere accesso al mondo editoriale. Il progetto è cresciuto molto, centinaia di autrici hanno aderito e tutt’oggi è ancora gratuito. È una prova di quanto le donne possano essere forti se unite.
Che cosa porterai con te di questo tour italiano?
È stato semplicemente straordinario. Sono una «working class writer», non mi stanco mai di ripeterlo. Non mi aspettavo di pubblicare un libro né tantomeno mi aspettavo che questo libro fosse tradotto e pubblicato in Italia. E neppure che qualcosa scritto da me arrivasse nella shortlist di un premio prestigioso come lo Strega Europeo. Durante la serata finale il tuo volto è proiettato su uno schermo gigante, hai un microfono ad archetto e sei di fronte a un pubblico sterminato… È stata l’esperienza più vicina a un concerto di Beyoncé che uno scrittore possa vivere. Devo ammetterlo, prima della performance ero molto nervosa. Ma è stato un privilegio, uno di quei ricordi che filano dritto nella categoria «solo una volta nella vita». Le presentazioni sono state eccezionali, erano l’occasione giusta per poter ringraziare di persona tutti i miei lettori italiani.
E adesso?
Sto continuando ad assillare Peter, il mio compagno: appena concluso il tour in Italia, torniamo a casa e finisco di scrivere il libro nuovo. Ci sono quasi. Due mesi, e poi l’India per festeggiare. Ovviamente racconterà di una donna. Perché non può essere altrimenti. E questo personaggio infrangerà tutte le regole non scritte. Il romanzo s’intitolerà You are here. Hai presente le indicazioni nelle mappe?
Un grazie speciale a minimum fax.
Fotografia © Eleonore de Bonneval