«Non so scrivere di ciò che non amo». Inizia così la mia telefonata con Andrea Marcolongo. Ci separano alcuni chilometri: io sono nella mia casa a Torino, lei in viaggio per incontrare i suoi lettori, su un treno diretto a Verona. Eppure mentre parliamo di greco – la sua lingua geniale –, di eroi, di miti, di luoghi e di vita, succede che le distanze si azzerano. La voce cristallina e sincera di Andrea mi racconta com’è nata La misura eroica (Mondadori, pp. 209, euro 17), il nuovo libro che reinterpreta il mito delle Argonautiche.
Partiamo dal greco. Da quella lingua che ami e che hai fatto (ri)scoprire a tanti lettori. Qual è il tuo primo ricordo?
Un ricordo di bambina. Perché, alla fine, a quattordici anni ero una ragazzina. Che ti posso dire, la prima parola imparata? Oἰκία, casa. Dalla prima declinazione. È difficile ricordarsi quello che si impara all’inizio, quando ti affacci su una lingua che non conosci. Non si tratta mai di parole particolari. Non credo che la mia prima parola in inglese sia stata «amore». Mi ricordo però – quello sì, è impossibile da dimenticare – il fascino che esercitava su di me l’alfabeto. Quando mi sono ritrovata a scrivere in greco, in un alfabeto che mi sembrava così misterioso, sono stata sedotta fin da subito.
Veniamo a La misura eroica. Ti avranno già chiesto perché, di tutta la sterminata mitologia greca, tu abbia scelto proprio Le Argonautiche, il mito di Giasone narrato da Apollonio Rodio. Quello che mi piacerebbe sapere però è il momento in cui hai capito che la chiave per narrare questa storia sarebbe stata How to abandon ship, un manualetto per sopravvivere al naufragio. Quando, cioè, questi due universi che abitavano dentro di te hanno colliso.
Che bella questa domanda! Allora, andando con ordine… Le Argonuatiche le ho scelte perché sono il mito più antico della letteratura, di certo per quanto riguarda quella greca, ma posso azzardare a dirti dell’intero Mediterraneo. Sono molto più antiche dell’Iliade e dell’Odissea. Ecco, potrei darti tante risposte tradizionali: mi sono laureata sulla figura di Medea… Ma non volevo scrivere un altro libro sulla grammatica greca o su quanto sia importante la letteratura greca. Volevo misurarmi con la scrittura in quanto scrittrice. E siccome non so scrivere di ciò che non amo, mi affascinava il mito più antico al mondo. Che poi per me è anche il mito più contemporaneo tra quelli greci. Racchiude quella chiave dell’eroismo, racchiude quella chiave della meraviglia da cui non si può prescindere. Penso che chiunque sia stato a inventarlo – che poi non so come si inventino i miti – in quella Grecia che è circondata dal mare, ricoperta di mare, ha dato vita a una storia (una storia di formazione) sulla prima nave al mondo che parte. Non davano per scontato niente, i Greci. Anzi.
Dopo il successo del mio primo libro mi chiedevano cose analoghe, testi in cui un lettore che aveva amato La lingua geniale si sarebbe facilmente ritrovato. Io, invece, come ti ho già detto non so scrivere di ciò che non amo, piuttosto che tradirli non avrei scritto. È stato però difficile scegliere cosa scrivere. Alla fine di tanti no, dopo varie proposte che non corrispondevano alla mia misura, mi sono armata di questo manualetto inglese, questo manuale che non ha quasi nulla di letterario, anzi è a tratti molto noioso… raccontiamolo per quello che è: un manuale per sopravvivere a un naufragio scritto da un naufrago della Seconda guerra mondiale. La maggior parte delle cose contenute in quelle pagine sono per me incomprensibili (e molto tecniche). Ma quello che ho capito quel giorno di tanti anni fa in cui lo trovai per puro caso in Inghilterra, durante una vacanza nel Kent, è che questo libro – che fa da esatto contraltare non solo alle Argonautiche, ma anche alla nostra contemporaneità – parla della vita umana, puntando sull’empatia. In mezzo al mare, cosa fare? Come sopravvivere in pieno oceano su una zattera? Col pensiero, con l’empatia. Porta con te le cose belle. E io penso: ma come posso se sto naufragando? Cerca la bellezza, trovala nel panorama. La bellezza non ti potrà salvare la vita, ma l’umore sì. Dopo un naufragio la forza più grande è quella di tornare per mare. Quando l’ho trovato mi sono detta: un giorno scriverò di questo libro. Ed ecco che i vari pezzi di queste due storie hanno trovato una loro dimensione.
Il libro si chiude con dei ringraziamenti, l’ultimo e forse il più importante è dedicato alla tua città, Sarajevo: «mi ha insegnato che con l’amore non si perde mai, neppure una guerra». E in copertina La misura eroica ha l’immagine di un portachiavi che, se all’inizio può spiazzare, dopo il viaggio tra le pagine in cui conduci i tuoi lettori acquista un senso pieno di grazia.
Sarajevo è la mia famiglia, la mia casa, il mio tutto. In questo aprile ricorre il ventiseiesimo anniversario dell’inizio della guerra (o dell’assedio, per meglio dire). Volevo quella foto, l’ho fortemente voluta. L’ha scattata un fotografo bosniaco, poi diventato un amico, che attraverso gli oggetti che avevano con sé i morti di Srebrenica trovati nelle fosse comuni ha cercato di ridare loro un’identità – non solo un nome, un cognome o un numero. La foto mi ha subito colpito: è un portachiavi degli anni Novanta, di quelli che davano in pizzeria, di gommapiuma, con delle chiavi di casa. Di una casa che non è mai stata riaperta. E poi per la scritta, che si legge molto poco, e che recita così: «abbiamo un cuore per chiunque arrivi da noi». Ecco, quei ringraziamenti alla mia città che hai citato sono per me un inno alla vita, a quella vita e a quell’amore che racconto nel mio libro.
«Gli antichi sapevano invece che qualunque meta non è mai il punto di arrivo, è il punto di svolta». E allora vorrei concludere domandandoti qual è la tua prossima meta.
Posso essere sincera? Diventare madre. È una grande meta, lo so. E so anche che prima mi devo fermare per un po’, e non prendere altri treni. Da ragazza a donna. Da figlia a madre.