«Tu pensi che questo non abbia nulla a che vedere con te» diceva Meryl Streep davanti a una maldestra Anne Hathaway alle prese con il mondo dei vestiti ne Il diavolo veste Prada. Ve la ricordate? Infagottata nel suo maglione stinto e slabbrato, con i capelli arruffati, Hathaway esibiva una sottile diffidenza e un certo grado di superiorità nei confronti di quella donna – una glaciale e raffinatissima Meryl Streep – così devota all’universo di stoffe e tessuti da sembrarne quasi ossessionata. Ecco, la mia attitudine nei confronti di Atlante degli abiti smessi (Einaudi, pp. 179, 17 euro) di Elvira Seminara sarebbe potuta essere simile.
«Tu pensi che questo non abbia nulla a che vedere con te» diceva Meryl Streep davanti a una maldestra Anne Hathaway alle prese con il mondo dei vestiti ne Il diavolo veste Prada.
La protagonista, Eleonora, abbandona Firenze e si rifugia a Parigi. Dietro di sé lascia un marito scomparso, un legame spezzato con la figlia Corinne – «come un lenzuolo che ha subito troppi lavaggi» – e una casa colma di vestiti da custodire. Sarà nell’estremo tentativo di ricucire questo rapporto sfibrato da silenzi e malintesi, che Eleonora stilerà un campionario degli abiti lasciati a Firenze. Giorno dopo giorno, comporrà un vademecum per orientarsi tra gli armadi e i sentimenti. Perché a essere appesi alle grucce, riposti ordinatamente nei cassetti, non sono semplici brandelli di stoffa. Sono pezzi di vita, di ricordi, di occasioni perdute e di avventure future.
Il testo si presenterà ai vostri occhi come una morbida coperta patchwork: un’alternanza perfettamente riuscita tra le voci che compongono l’atlante, lo sguardo malinconico di Eleonora, le brevi, ma vivide descrizioni di Parigi – la città letterariamente più difficile da non stereotipare – e dei bizzarri inquilini del nuovo palazzo. Mi sono dovuta ricredere. Atlante degli abiti smessi si è rivelato una storia universale. Un romanzo che ha parlato a me in modo puntuale e diretto: durante la lettura mi sono ritrovata, più volte, a sorridere, ad annuire con fare complice davanti agli elenchi dell’eccentrica Eleonora.
Il testo si presenterà ai vostri occhi come una morbida coperta patchwork: un’alternanza perfettamente riuscita tra le voci che compongono l’atlante, lo sguardo malinconico di Eleonora, le brevi, ma vivide descrizioni di Parigi – la città letterariamente più difficile da non stereotipare – e dei bizzarri inquilini del nuovo palazzo.
Sono sicura che sarà così anche per voi. Perché chi non ha un vestito elfo, «uno di quelli che non trovi in nessun posto quando lo cerchi e che spunta beffardo quando meno te lo aspetti»? O un vestito di nebbia, di velo «che ti ha fatto sentire leggere quand’eri pesante?» O ancora: un vestito che hai paura a rimettere, «perché quel giorno sei stata così felice. E non vuoi rovinare il ricordo?»