Srebrenica, 11 Luglio 1995. Sono passati oltre venti anni dal più feroce massacro avvenuto in Europa dai tempi del nazismo. In pochi giorni, nella zona protetta di Srebrenica – all’epoca sotto la tutela delle Nazioni Unite – vennero uccisi ottomila bosniaci musulmani. L’eccidio fu compiuto dalle milizie serbo bosniache guidate dal generale Ratko Mladić nella totale indifferenza dei caschi blu olandesi. Molti di quei corpi – smembrati e sparsi nelle fosse comuni – attendono ancora oggi di essere riconosciuti. Una pagina della Storia molto spesso dimenticata, su cui continua ad aleggiare un manto di ipocrisia, che è il cuore di Come fossi solo (Giunti, pp. 218, 14 euro), l’esordio di Marco Magini.
Classe 1985. Eri un bimbo di dieci anni quando è scoppiato il conflitto. Viene naturale chiedersi perché esordire scegliendo di raccontare proprio questa guerra.
Ho avuto la fortuna di fare delle presentazioni all’estero e questa domanda spunta più spesso in Italia. Mi domando: perché no? Penso che tutte le guerre ci riguardino, soprattutto un conflitto così geograficamente vicino al nostro Paese. Sono sicuro che nel futuro prossimo – grazie a una generazione come la nostra, formata da persone che hanno la possibilità di viaggiare, con i mezzi di comunicazione e la conoscenza di lingue che facilitano l’avvicinamento di storie lontane – si andrà via via a definire una letteratura europea, una letteratura che non si interessa solo a temi ombelicali legati all’imminenza delle vicende del proprio Paese, ma a tematiche più ampie. La guerra ha dimostrato di essere terreno fertile per la scrittura: nel suo essere estrema mette spietatamente in luce i molteplici lati dell’essere umano. Il conflitto bosniaco – al di là del fatto che io sia partito da una storia che mi colpì in modo particolare – è interessante perché trasforma il concetto stesso di guerra in Europa. Tentando di eliminare l’enclave musulmana di Srebrenica, si è cercato di cancellare una possibilità di Oriente dal continente europeo.
Come sei arrivato a questa storia?
Attraverso una persona che ho conosciuto poco prima della fine dei miei studi, quando scrivevo la tesi a Londra: una ragazza italiana, genovese come te. Mi ha raccontato la storia di un giovane serbo, di una persona che è stata costretta a compiere una scelta impossibile. Sul momento non ho pensato che sarebbe potuto essere il punto di partenza per un possibile romanzo; ho provato, invece, a immedesimarmi e a pensare a cosa avrei fatto io se mi fossi trovato al suo posto. Erano passati diversi mesi, ma quella storia continuava a ritornarmi in mente. Nel momento in cui ho concluso il mio percorso di studi, ho sperimentato quel divario enorme tra quelle che erano le mie aspettative e quella che sarebbe stata la mia vita: il libro è stato qualcosa a cui mi sono aggrappato per dare un senso al mio quotidiano. Ho pensato che quella storia fosse importante da raccontare, e che la scelta di scrivere un romanzo e non un saggio fosse la decisione migliore per restituire a pieno la potenza emotiva di ciò che avevo ascoltato.
La guerra ha dimostrato di essere terreno fertile per la scrittura: nel suo essere estrema mette spietatamente in luce i molteplici lati dell’essere umano.
Immagino che il lavoro di documentazione sia stato molto lungo.
Sì, è stato lungo e articolato. Sono partito dalla consultazione online degli atti della Corte penale internazionale dell’Aia, riguardanti le vicende dell’ex Jugoslavia. Il passo successivo è stato allargare le proprie conoscenze: sono sempre stata una persona politicamente attiva, ma più andavo avanti nella ricerca, più mi rendevo conto di quanto poco ne sapessi dei fatti accaduti a Srebrenica. Ho letto molti testi sul conflitto bosniaco, e, a distanza di anni di lavoro, mi sono recato nei luoghi che avevo descritto nel romanzo per vedere se la mia immaginazione e la realtà combaciassero.
Come fossi solo è costruito sull’alternanza di tre voci maschili: il giudice González, il soldato Dražen e il casco blu Dirk. Sembra quasi suggerire l’idea che la storia sia scritta solo dagli uomini.
Originariamente la terza voce – al posto di quella di Dirk – era quella di una donna: Ana, la figlia di Mladić. Attraverso le pagine del suo diario – del diario di una giovane serba, figlia di un carnefice – descrivevo la presa di coscienza dell’eccidio e di quanto quest’ultima fosse tardiva. Questa terza voce, nonostante i miei sforzi, non si amalgamava bene con le altre due presenti nel testo. Ad un certo punto, pur con dolore, dopo due anni di lavoro, ho dovuto tagliare un terzo del libro. La storia di Dirk è nata per caso, è stata una coincidenza. Ho voluto aggiungere il punto di vista di un casco blu per offrire anche la prospettiva di una persona occidentale, di una persona in cui il lettore si poteva riconoscere. Dirk incarna tutti noi, tutto quello che siamo stati a Srebrenica. Scegliendo di tratteggiare un casco blu, necessariamente anche la terza ed ultima voce non poteva che essere maschile. Un’ulteriore domanda che, spesso, mi viene posta, riguarda l’assenza del punto di vista delle vittime. È stata una scelta personale. Per compensare questa mancanza, ho deciso di inserire, dietro la copertina, la foto della stele che riporta tutti i loro nomi.
Ho voluto aggiungere il punto di vista di un casco blu per offrire anche la prospettiva di una persona occidentale, di una persona in cui il lettore si poteva riconoscere. Dirk incarna tutti noi, tutto quello che siamo stati a Srebrenica.
È una guerra di cui si parla poco, nonostante l’eccidio – il più grave in Europa dopo la Seconda Guerra Mondiale. È stato un conflitto confuso, fratricida, che – forse più di altri – ha messo in evidenza come in tutte le guerre siano presenti delle zone grigie che rendono difficile una separazione netta tra bene e male.
Assolutamente. Inoltre, i mezzi che sono preposti alla diffusione di massa hanno difficoltà a spiegare una complessità simile. Al contrario, la letteratura si presta maggiormente a rappresentare la realtà in tutte le sue sfumature. Molto spesso mi viene chiesto quale possa essere il futuro del romanzo. Penso che il romanzo sia in crisi da sempre, e che nel futuro potrà essere florido solo se sarà pronto a sporcarsi le mani con storie importanti, diventando così un mezzo ancor più potente.
Il 7 settembre 2013 la Corte suprema olandese ha giudicato l’Olanda responsabile solo della morte di tre musulmani bosniaci uccisi durante il massacro di Srebrenica. Può essere considerato un passo avanti o un escamotage per superare il problema da parte del governo olandese?
Gli olandesi hanno fallito a Srebrenica. Va riconosciuto loro di aver avuto un processo di coscienza molto profondo. Il governo olandese dovette dare le dimissioni e, in Europa, si contano sulle dita di una mano i governi che assumono simili decisioni in seguito a errori di politica estera. Inoltre, la corte che ha giudicato l’Olanda colpevole è una corte olandese, la Corte dell’Aia. Certo, è poco. Ma io lo considero un primo, piccolo passo avanti.