Credo che una delle prove più bizzarre della nostra amicizia, mia e di F., sia avvenuta qualche anno fa, nella serata che avrebbe visto Nicola Lagioia vincere il Premio Strega con La ferocia.
Dopo una pizza in un locale vicino al mare eravamo rimaste per un po’ a guardare l’orizzonte, sedute a gambe incrociate sugli scogli, interrogandoci sul nostro futuro – il lavoro, le vacanze, le relazioni sbagliate (molte, quell’estate). E su dove saremmo finite. Lei sarebbe sempre tornata nella nostra città di mare, io sarei sempre ripartita. (Storia di chi fugge e di chi resta, per intenderci).
«Guardiamola insieme, no?» mi aveva detto lei all’improvviso, lo sciabordio delle onde in sottofondo.
«Sei sicura di voler passare la serata con me a vedere la diretta dello Strega? Può non essere esattamente esaltante».
Qui serve una precisazione. Secondo le statistiche, F. è una lettrice media. Legge un paio di romanzi al mese, ha un’insana passione per D’Avenia, e quando in libreria si ritrova disorientata davanti alle pile di nuove uscite non esita a mandarmi un messaggio chiedendomi in quale universo avventurarsi. Una lettrice sana, non una malata di editoria.
«Be’, ma con te che mi fai la telecronaca è tutta un’altra storia».
Sono passati solo due anni da quella sera, ma vicine o lontane, la finale del Premio Strega rimane sempre un nostro personalissimo rito, preceduto da un rapido inquadramento su chi siano i cinque scrittori stregati di turno. Quest’anno ho voluto condividerlo anche qui, con voi, su Nuvole. In rigoroso ordine alfabetico.
Teresa Ciabatti, la più amata, e anche la più favorita – fino alla proclamazione della cinquina che ha visto volare in vetta Paolo Cognetti, con un forte distacco (più di cento voti). Scrittrice e sceneggiatrice, ha esordito per Einaudi Stile libero con Adelmo, torna da me, da cui è stato tratto il film di Paolo Virzì L’estate del mio primo bacio. Chiacchieratissima su Facebook – esiste una dissacrante community dal nome Ciabatters –, sostiene di passare le giornate a letto, di essere sempre stata una ragazzina fantasiosa e bugiarda («Mi ruppi i legamenti sciando e stetti per un mese in clinica. Fu il periodo più bello della mia vita: tutti che mi venivano a trovare. Non volevo che finisse e così esagerai e misi in giro la voce che ero morta»), e di rimpiangere ancora la piscina della casa d’infanzia.
La più amata (Mondadori, pp. 218, 18 euro), in bilico tra finzione e realtà – è stata definita un’autofiction feroce e perturbante –, parla di un padre e di una figlia. Lui, Lorenzo Ciabatti, è il Professore: un uomo potente, rispettato da tutti. Lei, Teresa Ciabatti, la figlia adorata. Ma chi era davvero il Professore? Prova a raccontarcelo una Teresa Ciabatti adulta, attraverso una voce narrante che mantiene tutti i tratti della bimba viziata: «Lo so, ho scritto un romanzo in cui ho sputtanato i miei genitori, ho sputtanato ogni cosa», ha ammesso in un’intervista al Corriere.
«Mi chiamo Teresa Ciabatti, ho sette anni e ho appena saputo che mio padre è massone. Non so cosa significhi, l’importante è che il mio papi non sia gay, dio quanto lo amo».
Paolo Cognetti, classe 1978. Ha studiato matematica all’università, ma è esperto di letteratura americana. Ha esordito con minimum fax: «Mi sono presentato alla mia casa editrice preferita, che pubblicava Carver. I vostri libri mi hanno cambiato e rovinato la vita. Dovete pubblicarmi». E così è stato. Da Manuale per ragazze di successo a Una cosa piccola che sta per esplodere fino ad approdare all’indimenticata Sofia – protagonista di Sofia si veste sempre di nero. I suoi maestri? Su tutti, Mario Rigoni Stern.
Di Le otto montagne (Einaudi, pp. 208, 18,50 euro) hanno detto che è già un classico, o che lo diventerà presto. Tradotto in una trentina di Paesi, racconta di un’amicizia tutta al maschile: Pietro e Bruno. Una storia che si snoda negli anni, tra Milano e Grana, tra la città e la montagna. E che, un passo dietro l’altro, usando parole come brenga, pezza, arula, barma, berio… e ancora l’andret e l’envers, ha fatto scoprire non solo ai lettori, ma anche all’editoria, quanto cool può essere la montagna. Cognetti ha un blog – Capitano, mio capitano – e organizza un festival a Estoul, tra le sue montagne. Il nome? Non poteva che essere Il richiamo della foresta. Fra gli ospiti di questa prima edizione, Hervé Barmasse, Mauro Corona, Folco Terzani, Nicola Magrin. Munitevi di tenda e scarponcini (e leggete qui se volete saperne di più).
«Qualunque cosa sia il destino, abita nelle montagne che abbiamo sopra la testa».
Scrittrice, attrice, regista, poetessa e insegnante, Wanda Marasco è la vera sorpresa della cinquina. Con la raccolta di poesie Voc e Poè ha vinto il Premio Eugenio Montale nel 1997. Il primo romanzo risale al 2003, ed è stato pubblicato da Manni. Del 2015 è invece Il genio dell’abbandono, che segna il suo ingresso nel catalogo Neri Pozza e che non si aggiudica, per un soffio, un posto nella cinquina di quell’anno.
È Napoli il ventre della scrittura della Marasco. Ed è la sua città a essere raccontata in La compagnia delle anime finte (Neri Pozza, pp. 240, 16,50 euro). Da Capodimonte, al capezzale della madre ormai defunta, ci arriva la voce di Rosa. In questo dialogo impossibile, la protagonista ripercorre a ritroso l’esistenza della madre dall’infanzia al dopoguerra. Tra chiacchiere e violenza, l’incontro con il futuro marito, l’usura praticata nel segreto dei vicoli, emerge un ritratto vivido della vita nel rione. Una storia di voci di donne, siano esse madri, bambine, o spose.
«Volevo che il femminile possedesse forza dominante e carica espressiva – ha dichiarato l’autrice in un’intervista al Venerdì di Repubblica –, per tracciare al meglio l’itinerario drammatico che conduce alle radici del guasto esistenziale e sociale».
«Rafaele dice a Vincenzina: “Ti sposo” e questo a una femmina del dopoguerra può bastare».
Matteo Nucci, Roma, 1970. Quattro libri all’attivo, e uno sguardo tutto rivolto al passato. Sono i miti, infatti, a essere il fuoco sacro delle narrazioni di Nucci: dall’esordio con Sono comuni le cose degli amici – che deve il titolo a un antico detto greco – arrivando al recente È giusto obbedire alla notte (Ponte alle Grazie, pp. 363, 18 euro). Questo suo ultimo romanzo racconta di una comunità di personaggi che vivono insieme sulle rive del Tevere. Una piccola odissea di passioni, sentimenti e strazi umanissimi. Al centro Ippolito, conosciuto nel gruppo come «il Dottore». Tutto è narrato da una lingua fluida, che sfocia spesso nel flusso di coscienza, una miscellanea che accorpa citazioni letterarie, idioma romanesco, spagnolo, e un italiano popolare. E che crea un universo: una Roma di periferie, di margini e degradi. A dare il titolo, anche in questo caso, un verso tratto dal mondo antico, il canto VII dell’Iliade: «Mettiamo fine ormai alla battaglia e alla lotta per oggi; poi combatteremo ancora, finché un dio ci divida e conceda agli uni o agli altri vittoria; ormai scende la notte; è giusto obbedire alla notte». Del resto, come ha detto Nucci in un incontro pubblico, «I miti sono tutto quello che ti rimane quando li hai dimenticati».
«Perché questa è la Roma che amiamo, vero Pip? La Roma perduta. La Roma sul fiume».
Una vita tra i libri, i manoscritti e le parole quella di Alberto Rollo. Per ventidue anni in Feltrinelli – scoprendo e lavorando gomito a gomito con autori del calibro di Simonetta Agnello Hornby, Maurizio Maggiani, Cristina Comencini. E ancora Tabucchi, Benni, Baricco. Il suo è, a tutti gli effetti e senza possibilità di smentita, un esordio maturo. Un’educazione milanese (Manni, pp. 320, 16 euro) racchiude già tutte le premesse nel sottotitolo: Il romanzo di una città e di una generazione. Si tratta infatti di un’opera in cui i generi si toccano e si mescolano fino a confondersi: memoir, romanzo di formazione, fermo immagine di un’epoca perduta. Inserendosi nel solco di autori come Annie Ernaux – senza mai perdere di vista la passione per l’affabulazione, il gusto per lo sguardo caldo e insieme analitico – Rollo racconta di un’educazione milanese operaia, mescolando fatti intimi alla rievocazione (mai nostalgica, mai fine a se stessa) di un tempo e di un’abitudine di stare al mondo che oggi ci sembrano lontanissimi. La scoperta, commossa, di un’appartenenza reciproca: «Ora lo so, questa città mi ha voluto».
«Cerco ponti in cui lo spaesamento e il sentirmi a casa coincidano. E su quei ponti finiscono con l’apparire, teneri e meridiani, i fantasmi che mi riconducono là dove io sono cominciato e dove è cominciata per me questa città».
Qualche settimana fa, nella mia città di mare F. mi guarda, e mi sorprende. Nessun «Quindi? Chi vincerà quest’anno?», ma «Va be’, è chiaro che siamo #teamCognetti, no?» Uno a zero. Per lei. Come sempre.