Che lo si ammetta o no, abbiamo tutti dei guilty pleasures letterari. Una serie di letture che segretamente divoriamo nella penombra della sera, sdraiati a letto o raggomitolati sul divano. Se dovessi confessarvi il mio avrebbe un nome preciso. Di più. Si configurerebbe come un ometto tondeggiante, dai baffi neri, lunghi e sottili, la forma della testa vagamente somigliante a quella di un uovo e un buffo accento belga. Sì, è proprio di Hercule Poirot che sto parlando.
Da piccola – per essere più precisa daterei il cosiddetto «periodo giallo» dagli otto agli undici anni – non facevo altro che comprare, leggere, collezionare e disporre in ordine cronologico tutte le opere della scrittrice inglese. Da Tommy e Tuppence, coppia di strampalati detective innamorati, all’arzilla ficcanaso di Miss Marple – passando per il dimenticatissimo Parker Pyne e il fantasmatico duo formato da Quin e Satterthwaite – non c’era libro della cara zia Agatha che non divorassi. L’avverbio esatto con cui li maneggiavo, in netto contrasto con la mia naturale propensione al disordine, era religiosamente. Avevo una lista – aNobii era ancora un miraggio lontano – che divideva in tre blocchi l’intera produzione della Regina del Giallo. Nella libreria della mia città di mare custodisco ancora oggi tutti i volumi pubblicati tra il 1920 e il 1940 e la maggior parte di quelli tra il ’40 e il ’60.
Che lo si ammetta o no, abbiamo tutti un guilty pleasure letterario. Se dovessi confessarvi il mio avrebbe un nome preciso. Di più. Si configurerebbe come un ometto tondeggiante, dai baffi neri, lunghi e sottili, la forma della testa vagamente somigliante a quella di un uovo e un buffo accento belga. Sì, è proprio di Hercule Poirot che sto parlando.
Potete capire il groviglio di sentimenti una volta avuto tra le mani Penelope Poirot fa la cosa giusta (Marcos y Marcos, pp. 332, 17 euro) scritto da Becky Sharp, pseudonimo che nasconde un’autrice italiana. Penelope è la pronipote dell’adorato Hercule Poirot. Dallo zio non ha certo ereditato l’intuito nel risolvere i misteri, bensì un altro tipo di fiuto: quello gastronomico.
Ma si sa, tutti i lavori comportano fatiche e sacrifici; anche una lunga carriera di degustazioni e assaggi. Ed è proprio per rimettersi in forma, depurarsi e perdere i chili di troppo, che questa signora inglese di mezza età abbandona la grigia Londra per recarsi nel cuore della soleggiata Toscana, tra le colline del Chianti, a Villa Onestà. Non prima però di essersi scelta una segretaria impeccabile, zitella di origini italiane, con una spiccata indole al pensiero astratto: Velma Hamilton.
Penelope è la nipote dell’adorato Hercule Poirot. Dallo zio non ha certo ereditato l’intuito nel risolvere i misteri, bensì un altro tipo di fiuto: quello gastronomico.
Sarà lì, all’interno della villa (una clinica della salute new age), tra intrallazzi amorosi e immancabili intrighi, che il fiuto della protagonista verrà messo alla prova, portandola erroneamente a ipotizzare la morte di un ospite, quando un delitto si sta concretizzando, – qui è proprio il caso dirlo – sotto il suo naso.
Chissà se Penelope riuscirà a fare la cosa giusta, svelando ogni mistero. Per voi è decisamente più semplice: andate in libreria e regalatevi questa storia sospesa tra la raffinata parodia del mistery più classico e la commedia degli equivoci. Da leggere al mare o in montagna. O in città, una volta tornati dalle vacanze. In ogni caso alla luce del sole: al diavolo i guilty pleasures.